RIPARTIRE DAI NOSTRI DISTRETTI
Prima dello tsunami, in base ai dati del Monitor di Intesa Sanpaolo (ISP) i venti distretti industriali dell’EmiliaRomagna avevano chiuso il 2019 con 17,5 miliardi di euro di esportazioni, circa il 30 per cento dell’export regionale. A ciò, vanno poi aggiunte le esportazioni dei tre poli tecnologici (biomedicale di Bologna, biomedicale di Mirandola, polo ICT dell’Emilia-Romagna), che sempre a fine 2019 ammontavano a 1,2 miliardi di euro. La prossima edizione del Monitor, che coprirà il primo trimestre 2020, restituirà una fotografia assai diversa delle performance dei nostri distretti, colpiti – al pari di tutta l’economia – da un doppio choc (di domanda e di offerta), per di più generalizzato a tutta l’economia mondiale. E così sarà per il trimestre successivo, il secondo del 2020. Fra i lussi che non possiamo (più) permetterci vi è quello di attendere gli eventi. Pensare alla «ricostruzione» è la cosa giusta da fare. Queste giornate sono dominate dalle discussioni sul «Decreto Rilancio». Ora, cercando di unire le due storie che qui abbiamo richiamato (resilienza dei distretti e provvedimenti governativi, di cui però manca ancora il testo ufficiale), quali primissime indicazioni si possono trarre?
E’più che giusto prevedere indennizzi (aiuti a fondo perduto) alle imprese, a partire da quelle piccolissime, resi possibili dal nuovo quadro tracciato dall’Unione europea (Ue) per gli aiuti di Stato. Con questo provvedimento si cerca, infatti, di offrire un parziale ristoro alle imprese che hanno subito crolli significativi (un terzo rispetto all’anno precedente) dei loro fatturati.
Ancora: è più che giusto prevedere aiuti pubblici al capitale (equity) delle PMI, anche in questo caso dedicati alle imprese colpite da cali di almeno il 33 per cento del volume d’affari; aiuti che andranno rimborsati in sei anni rispettando tutta una serie di condizioni.
Sembra, dunque, prevalere un’impostazione basata su criteri negativi (cali del fatturato dovuti al lockdown), criteri che sono, giova ripeterlo, assolutamente necessari in considerazione della profondità della crisi che ha colpito la quasi totalità dei settori produttivi. Ma criteri non sufficienti se vogliamo indirizzare l’economia italiana – e la sua industria, in particolare - verso le necessarie trasformazioni strutturali.
Un’impostazione basata anche su criteri che possiamo definire positivi dovrebbe prevedere forme speciali di incentivazione della mano pubblica (ingresso nel capitale, prestiti garantiti, ecc.) per i seguenti due casi. Primo, operazioni di fusione e acquisizione (ma anche joint-venture) fra imprese che abbiano luogo all’interno di un distretto industriale e/o fra imprese appartenenti a distretti legati da relazioni di complementarietà. Secondo, strategie di espansione delle nostre imprese distrettuali verso le regioni del Mezzogiorno d’Italia, dove le economie di agglomerazione (bacini di lavoratori qualificati, produzione in loco di input intermedi, rapida circolazione della conoscenza) non hanno dispiegato pienamente i loro effetti, pur non mancando al Sud storie di successo sia di distretti che di medie imprese (si pensi ai Champions de L’Economia).
Limitandoci, per semplicità, all’esame dei quattro distretti emiliani che superavano a fine 2019 il miliardo di euro di export (meccatronica di Reggio Emilia, piastrelle di Sassuolo, macchine per l’imballaggio di Bologna, food machinery di Parma), possiamo intravvedere un tratto caratteristico; ossia, la presenza in ognuno di essi di imprese leader di filiera: imprese che hanno ampiamente superato la piccola dimensione e sono oggi o medie o grandi (alcune tendenti verso il rango di multinazionale). E lo stesso accade ormai in tutti gli altri distretti e poli tecnologici della regione. Investire sul rafforzamento delle relazioni fra queste imprese leader e la moltitudine di micro e piccole imprese che popolano i nostri distretti, al fine di superare insieme la crisi e tendere verso un consolidamento dimensionale del nostro capitalismo, dovrebbe essere il compito di una moderna politica industriale nazionale. Che richiede pazienza e perizia. E che, però, continua a mancare: più semplice pensare alla ricostituzione dell’IRI o della Gepi.