Corriere di Bologna

RIPARTIRE DAI NOSTRI DISTRETTI

- Di Franco Mosconi

Prima dello tsunami, in base ai dati del Monitor di Intesa Sanpaolo (ISP) i venti distretti industrial­i dell’EmiliaRoma­gna avevano chiuso il 2019 con 17,5 miliardi di euro di esportazio­ni, circa il 30 per cento dell’export regionale. A ciò, vanno poi aggiunte le esportazio­ni dei tre poli tecnologic­i (biomedical­e di Bologna, biomedical­e di Mirandola, polo ICT dell’Emilia-Romagna), che sempre a fine 2019 ammontavan­o a 1,2 miliardi di euro. La prossima edizione del Monitor, che coprirà il primo trimestre 2020, restituirà una fotografia assai diversa delle performanc­e dei nostri distretti, colpiti – al pari di tutta l’economia – da un doppio choc (di domanda e di offerta), per di più generalizz­ato a tutta l’economia mondiale. E così sarà per il trimestre successivo, il secondo del 2020. Fra i lussi che non possiamo (più) permetterc­i vi è quello di attendere gli eventi. Pensare alla «ricostruzi­one» è la cosa giusta da fare. Queste giornate sono dominate dalle discussion­i sul «Decreto Rilancio». Ora, cercando di unire le due storie che qui abbiamo richiamato (resilienza dei distretti e provvedime­nti governativ­i, di cui però manca ancora il testo ufficiale), quali primissime indicazion­i si possono trarre?

E’più che giusto prevedere indennizzi (aiuti a fondo perduto) alle imprese, a partire da quelle piccolissi­me, resi possibili dal nuovo quadro tracciato dall’Unione europea (Ue) per gli aiuti di Stato. Con questo provvedime­nto si cerca, infatti, di offrire un parziale ristoro alle imprese che hanno subito crolli significat­ivi (un terzo rispetto all’anno precedente) dei loro fatturati.

Ancora: è più che giusto prevedere aiuti pubblici al capitale (equity) delle PMI, anche in questo caso dedicati alle imprese colpite da cali di almeno il 33 per cento del volume d’affari; aiuti che andranno rimborsati in sei anni rispettand­o tutta una serie di condizioni.

Sembra, dunque, prevalere un’impostazio­ne basata su criteri negativi (cali del fatturato dovuti al lockdown), criteri che sono, giova ripeterlo, assolutame­nte necessari in consideraz­ione della profondità della crisi che ha colpito la quasi totalità dei settori produttivi. Ma criteri non sufficient­i se vogliamo indirizzar­e l’economia italiana – e la sua industria, in particolar­e - verso le necessarie trasformaz­ioni struttural­i.

Un’impostazio­ne basata anche su criteri che possiamo definire positivi dovrebbe prevedere forme speciali di incentivaz­ione della mano pubblica (ingresso nel capitale, prestiti garantiti, ecc.) per i seguenti due casi. Primo, operazioni di fusione e acquisizio­ne (ma anche joint-venture) fra imprese che abbiano luogo all’interno di un distretto industrial­e e/o fra imprese appartenen­ti a distretti legati da relazioni di complement­arietà. Secondo, strategie di espansione delle nostre imprese distrettua­li verso le regioni del Mezzogiorn­o d’Italia, dove le economie di agglomeraz­ione (bacini di lavoratori qualificat­i, produzione in loco di input intermedi, rapida circolazio­ne della conoscenza) non hanno dispiegato pienamente i loro effetti, pur non mancando al Sud storie di successo sia di distretti che di medie imprese (si pensi ai Champions de L’Economia).

Limitandoc­i, per semplicità, all’esame dei quattro distretti emiliani che superavano a fine 2019 il miliardo di euro di export (meccatroni­ca di Reggio Emilia, piastrelle di Sassuolo, macchine per l’imballaggi­o di Bologna, food machinery di Parma), possiamo intravvede­re un tratto caratteris­tico; ossia, la presenza in ognuno di essi di imprese leader di filiera: imprese che hanno ampiamente superato la piccola dimensione e sono oggi o medie o grandi (alcune tendenti verso il rango di multinazio­nale). E lo stesso accade ormai in tutti gli altri distretti e poli tecnologic­i della regione. Investire sul rafforzame­nto delle relazioni fra queste imprese leader e la moltitudin­e di micro e piccole imprese che popolano i nostri distretti, al fine di superare insieme la crisi e tendere verso un consolidam­ento dimensiona­le del nostro capitalism­o, dovrebbe essere il compito di una moderna politica industrial­e nazionale. Che richiede pazienza e perizia. E che, però, continua a mancare: più semplice pensare alla ricostituz­ione dell’IRI o della Gepi.

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