Verso il contagio zero
Stefani: «Il Pd non deve parlare solo ai nostri»
«Quando nacque, la Regione non aveva neanche una sede. Quando poi il controllo sui Comuni e il personale passò dai prefetti a noi, andammo a Roma dal ministro degli Interni, era Franco Restivo. Gli presentammo un elenco di funzionari da staccare dalle Prefetture a noi. “Domandate i migliori”, ci rispose. Ce ne diede 48». Dante Stefani è uno dei padri della Regione Emilia-Romagna. Passando da sindaco di Bologna a presidente, Guido Fanti nel 1970 lo volle al suo fianco, «assessore agli Affari generali, Programmazione, Bilancio».
Numero due della prima giunta?
«Non mi sono mai candidato. Sono sempre stato candidato».
Comunista di una volta?
«Da quando avevo 16 anni. Nella Resistenza. A settembre gli anni saranno 93 e sono iscritto al Pd».
Che cosa ne pensa?
«Bisogna essere più ottimisti. Aprirsi di più, parlare non solo con i nostri».
A Bologna? Matteo Lepore ce la farà a diventare sindaco dopo Merola?
«Della giunta è il migliore. Ma non sarà facile. Le primarie vanno fate sul serio e con 4 o 5 candidati è difficile».
Stefano Bonaccini in Regione?
«Ha imparato dalla prima legislatura. Non c’entra il coronavirus. Aveva già preso molti voti in gennaio».
Cosa pensa della sua richiesta di maggiore autonomia dallo Stato, con la Lombardia e il Veneto leghisti?
«La richiesta è valida, eccome. Sa quanto ho litigato sulla
Sanità? Telefonavo al ministro Tommaso Morlino persino di notte per i problemi che avevamo».
Il racconto di Stefani sulle Regioni che compiono mezzo secolo è un viaggio su come sono cambiati i politici e cambiati (e non) i comunisti. Lui gli entusiasmi non li ha persi. Compresa un’educazione imparata vivendo.
«Tre volte all’ospedale, adesso sta per uscire un libro sulla mia vita da Pendragon. Quando votammo lo Statuto della Regione tutti i partiti si espressero a favore, escluso
Martinucci nel Msi che si astenne. Anche lui aveva collaborato parecchio. Facemmo una grande assemblea pubblica all’Arena del Sole, teatro pieno, grande festa».
Sempre in giacca blu e cravatta, lei è sempre stato un migliorista nel Pci. Come il borghese Fanti?
«Sono stato iscritto all’Albo dei poveri di Bologna per molti anni. Mio padre, calzolaio socialista poi comunista, morì che avevo tre mesi. Sono nato in via Arcoveggio, attaccato a una coop fondata nel 1910 e dove nel 1922 i fascisti spararono ai due fratelli di mio padre. Ho fatto l’avviamento professionale, il fattorino, il partigiano nella Brigata Sap Venturoli, dopo la guerra il disegnatore tecnico finché nel 1950 il partito mi chiamò a fare il funzionario, nel ’51 fui eletto in consiglio comunale con sindaco Giuseppe Dozza. Nel ’56 Roma mi mandò in Urss a studiare. Arrivai in piena destalinizzazione, Krusciov, il 20° congresso».
Il disgelo?
«Beh, l’unica volta che sono andato al Comitato Centrale del Pcus litigai con il responsabile per i partiti comunisti occidentali. Mi mostrò una serie di articoli della Pravda,
parlavano anche di Bologna. “Siete nazionalisti, antisovietici perché volete andare al governo”, mi urlò. Io parlavo russo e gli risposi per le rime. “Compagno Stefano non ci paleremo mai più”, mi salutò. Quando tornai a Bologna scoprii che qui la discussione sul 20° Congresso non c’era stata, dovemmo aspettare il 22° per un confronto pubblico sul Rapporto Krusciov».
Lei dopo la Regione è stato senatore e presidente Fiera: come è diventato quello che è?
«Ascoltando. In Regione nella prima legislatura c’erano ex sindaci e funzionari di grande esperienza. Si costruiva e si imparava».
È stato amico di Giorgio Guazzaloca anche quando battè lla sinistra in Comune.
«Avrebbe voluto fare il candidato sindaco con noi».
” La richiesta di autonomia è valida, eccome. Sa quanto ho litigato sulla Sanità? Telefonavo al ministro Tommaso Morlino persino di notte per i problemi che avevamo