Gli 80 anni di Guccini lontani da Bologna
Qui è cominciata l’avventura di Francesco ma gli strappi della città sono stati troppi
«Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto/ rimorso per quel che m’hai dato, che è quasi ricordo, e in odor di passato». Francesco Guccini questa domenica 14 giugno compie 80 anni. Niente, come il verso famoso, può celebrare il rapporto con la città dove è diventato grande. Uomo e artista. La Bologna della maturità è finita nel vento: il compleanno lui lo celebrerà a Pavana, appena al di là dell’Appennino di Pistoia, le feste gliele hanno organizzate a Modena. Via streaming, ma piene di senso: con il reggiano Ligabue, il sindaco, il presidente della Regione, l’amico poeta, l’editor dell’autobiografia, la banca, tutti modenesi.
Bologna, come nel 2010 per i 70 anni, si è dimenticata ed è stata dimenticata. Con amore, un amore perduto. Dieci anni fa — epoca di commissariamento — cercarono di rimediare dandogli ex post il Nettuno d’Oro. Meritava almeno l’Archiginnasio, visto che la laurea honoris causa gliel’ha concessa Modena-Reggio. Lui per la prolusione scelse un suo amico, Benedetto Salvarani, teologo laico, signore eclettico come lui, amante di fumetti e musica. Modenese.
Fu una coltissima fenomenologia del celebrato. Si partiva dalle osterie, padre Michele Casali dell’allora vivacissimo Centro San Domenico e con cui aprì le Dame, le amicizie, le carte, il vino. «La città era meno costosa, — ricordava Guccini — c’erano più locali aperti la notte, più voglia anche di divertirsi e più idee che circolavano, più entusiasmo». Si arrivava all’oggi. «Alcuni anni più tardi, nella conversazione con Vincenzo Cerami, — spiegò Salvarani, in una Sala Borsa zeppa ed entusiasta — in Guccini il rifiuto di Bologna si farà irrimediabile. «Aborro Bologna – confessava il Maestro - perché si sta chiusi in casa, vedo le stagioni solo attraverso un giardinetto che adesso comincia a buttare qualche foglia... Troppi motori, troppa metropoli, si perde il suo essere antica, placida, bonaria».
«Francesco a Bologna ha cominciato a farsi vedere sempre meno quando ha sentito che un modo di stare insieme finiva e non veniva sostituito da nient’altro» racconta Alberto Bertoni, l’italianista che con Guccini ha scritto Non so che viso avesse. Quasi un’autobiografia, appena aggiornata e ristampata, perno dei festeggiamenti domenica scorsa a Modena, la città di Bertoni, successore a Bologna sulla cattedra di Ezio Raimondi, il maestro con cui si è laureata Raffaella Zuccari, la moglie con cui Guccini è tornato a Pavana. Il paese del babbo, dell’infanzia in tempo di guerra, dell’inverno della vita. A lui Guccini ha dedicato il primo e l’ultimo romanzo. «Vacca di un cane» è Modena, dove arriva bimbo. «Cittanova blues» è Bologna:
Dall’alto, Francesco in uno dei suoi primi concerti, foto di una vita, in squadra con Lucio Dalla e infine con Vito e ancora Lucio Dalla
dal 1961 in via Massarenti a Paolo Fabbri 43.
A Bologna Francesco diventa Guccini. Come artista completo: dalla musica alla scrittura. Alla nascita nel 1978 di Francesca, la figlia. È qui che il ricordo fiorisce, anche nei dialetti e nei racconti del tempo lontano. Pier Vittorio Tondelli a Correggio viveva nella stessa casa di un ragazzo chiamato Ligabue, a cui insegnava il basket e il verso libero; commentò così l’esordio di Guccini: «Cronache popolari, ma anche il parlato selvaggio di certi narratori americani, lo slang degli anni sessanta e, perché no, anche la lingua immaginaria e carnale di un Rabelais».
Via Paolo Fabbri, casa dal 1970, come la scoperta (deludente) degli Usa e la barba mai abbandonata (a differenza del complici di rime sciolte Umberto Eco), sono finestre con i gerani curati, le piante sulla porta. I fan bussano invano. Chiuso. Qualche passaggio ogni tanto, una notte, con un pasto da Vito, lì di fronte. Bologna è una canzone famosa. Modena «Piccola città/ bastardo posto». Pavana lontanissima è «L’ultima Thule». Come se il vate Giosuè Carducci se ne fosse tornato a Bolgheri. «Sei un carducciano di ritorno» sibilò a Guccini il giornalista del Carlino Pierino Benassi, in una delle notti di carte, fumo, vino, versi cercati. Francesco aggiunse «giornalisti ignoranti» a «Libera nos Domine».
Ce ne è per tesi e tesi sul Maestrone, nei decenni a venire. Altro che sul suo non essere mai stato comunista: lo ripete da 60 anni, libertario, il Psi per cui votò era quello di Pertini mai di Craxi, sinistra decisa sempre. Quando nel 1978 andò al Festival Mondiale della Gioventù a Cuba tornò facendo un racconto fantastico sui paesi comunisti europei e sui i laotiani che cantavano «Luantalamela». «Se li lasci fare quelli scelgono stella e corona». Il grande Demetrio Stratos e gli Area, anche loro a L’Avana, si indignarono su Il Manifesto. Seguì dibattito. Rossana Rossanda alla fine concluse che Guccini mica aveva tanto torto.