Con la street art di Afran (e la mano di chef Barbieri) il Fourghetti prende colore
giana. Con il lockdown abbiamo capito subito che non saremmo andati in scena. Abbiamo deciso di continuare a lavorare, rivolgendo sul presente la riflessione, trasformando in materiale di memoria le vite e i problemi di questi mesi di clausura a causa dell’emergenza sanitaria». Tutto sembrava invecchiare rapidamente nei giorni di marzo, aprile, maggio, quando ogni giorno la situazione, la legislazione, le emozioni mutavano. «Ci siamo detti: diamo dignità drammaturgica a questa situazione, coscienti che forse saremo continuamente inattuali, ma che i segni causati dall’evoluzione degli avvenimenti sono rimasti depositati, rabbie odi, complicazioni, nevrosi, idiosincrasie, speranze…».
Hanno scelto allora di storicizzare, di montare le esperienze appena vissute in una lettera agli uomini liberi del futuro, che magari avranno fatto tesoro degli errori che ci hanno portato a questo punto, «sperando che loro abbiano risolto i problemi che hanno causato il cambiamento climatico, le crisi economiche, che abbiano fermato la corsa dissennata al profitto e all’egoismo messa in moto dal thatcherismo e dalle sue propaggini, con la coscienza che non si può andare ancora oltre, la fine del pianeta non può permettersela neppure i privilegiati».
Lo spettacolo non ha un regista: è un lavoro nato dialogando sulla piattaforma Zoom durante le lunghe ore della quarantena: «È una drammaturgia speculativa, in cui proponiamo agli spettatori una specie di re-enactment, una reviviscenza di quello che è accaduto in questi mesi» aggiunge Baraldi. E Borghesi conclude: «È il lavoro più collettivo che abbiamo composto: ognuno di noi ora non distingue più quali sono i pezzi scritti da lui».
Le pareti in cemento grezzo, naturale, si prestavano. E quel grigio aveva bisogno di convivere con i colori più vitali. Solari. Caldi. Aggressivi, anche. È così che Afran, al secolo Francis Nathan Abiamba, artista camerunense con base a Lecco, ha rivoluzionato a colpi di street art il Fourghetti di Bruno Barbieri. Il risultato è sorprendente. Entri e il primo impatto è con un viso di donna dai tratti orientali. In un’altra sala campeggia un altro primo piano di donna.
Nell’ambiente più ampio si nota un mappamondo trascinato da un uomo dai contorni indefiniti che sembra portarci verso un’opera che copre un’intera parete. Dirompente. Allegra. C’è una scritta sopra, «fragile”» in cui ha voluto dare l’impronta lo stesso Barbieri, che qui chiamano “«o chef».
«Tutto è nato da un’amicizia», racconta Afran. Nata con la collaborazione del lancio di una linea di giacche personalizzate della casa Memory’s Ltd, per sostenere la Fondazione ANT.Afran, quanto tempo è passato tra il dire e il fare?«Pochissimo. Dal momento in cui hanno deciso di riaprire il Fourghetti, dopo il lockdown, mi è venuto un lampo: visti i momenti pesanti che tutti hanno vissuto, c’era il desiderio di raccontare una nuova voglia di esistere, di combattere. L’uomo che trascina quel mappamondo non è slegato dall’opera grande. Lui ci porta là, verso il colore. Durante il lockdown abbiamo capito che i nostri gesti posso trascinare il mondo.
L’uomo che ho ritratto raggiungere la piazza allegra, colorata, e possiamo starci tutti dentro».
È stato un concetto emerso subito?
Ci siamo messi lì e non c’è stato bisogno di ragionare a lungo. Il lockdown ha compresso le energie. In giro c’è un sentire comune. Tutti abbiamo vissuto le stesse fragilità. In questo lavoro concordavamo su tutto. Io ho tradotto in arte, ma le idee sono state condivise senza difficoltà».
Talmente condivise che lo chef ha voluto dare il suo contributo pratico…
All’inizio ha messo casualmente i colori, poi ha voluto scrivere la parola «Fragile». Io ho dato un senso a tutto mantenendo i segni specifici che aveva lasciato lui. Avere la mano fisica dello chef, che qui cucina, per me non è un dettaglio irrilevante».
Lo ha proposto lei?
Sì, ma devo dire che lui si è prestato molto bene. È stato un grande divertimento per entrambi. Lo chef, dalla televisione, ha un look all’inglese. Che si appassionasse a un tipo di street art così sfrontata non me lo aspettavo. È stata una sorpresa anche per me».
Il suo motto, «Vorrei fare della mia arte ciò che i bluesmen hanno fatto della musica», sembra prestarsi molto bene a questo periodo…
Aderisce perfettamente. Il blues nasce in una situazione di difficoltà, di disagio, e ha dato una svolta alla realtà musicale. La stessa cosa sta accadendo ora. Invece di lamentarci, proviamo a trasformare tutto in energia».
Le sta stretta la definizione di street artist?
Un po’ sì. Non mi occupo solo di questo. L’arte con cui ho fatto cose importanti — l’Expo, la Triennale di Milano, la Biennale di Venezia — e per cui sto preparando un progetto per novembre 2020 al Museo di Basilea, è quella concettuale. In Camerun iniziai a studiare ceramica. L’ho lasciata, ma ho tenuto il volume».
” In comune Tuttto è nato da una amicizia, in quei mesi tutti abbiamo vissuto le stesse fragilità