LE PIAZZE E IL DECORO URBANO
ualche anno fa il Nobel indiano per l’economia Amartya Sen scrisse un libretto per rivendicare le origini non soltanto occidentali ma anche africane e asiatiche della democrazia.
Omise però il più forte elemento a sostegno della sua tesi, l’indicazione della componente fondamentale senza la quale nessuna opinione pubblica mai sarebbe potuta formarsi, in nessuna parte del mondo: uno spiazzo piatto e sgombro dove più persone potessero, parlando, vedersi in viso l’una con l’altra, una piazza insomma. Senza la piazza non sarebbero mai state possibili la discussione partecipata e la tolleranza dei diversi punti di vista, le caratteristiche che per Sen definiscono la pratica democratica.
Così nel ritorno in piazza ( e al dibattito circa l’uso della piazza) che in questi giorni interessa tutta la nostra città va anzitutto colta la volontà di ripristino, dopo il blocco dovuto alla pandemia, delle condizioni originarie della vita civile. Una volontà che non a caso si manifesta a Bologna, rispetto al resto del Paese, in tempi e modi specifici e più tempestivi.
Eche riguarda tutte le sue piazze, non soltanto quelle di prima sfera, ma anche quelle di seconda e di terza, come nel Settecento si sarebbe detto.
La proposta di Romano Prodi di trasformare il Crescentone in un luogo dato alle cene conviviali ha riscosso approvazione generale, e ogni giorno che passa si articola e coinvolge non soltanto i protagonisti locali della ristorazione ma il complesso dei soggetti pubblici, consapevoli che la generale ripresa dell’attività economica passa attraverso la preliminare e concorde produzione di forti segnali simbolici.
Al capo opposto della rete delle piazze bolognesi, l’estate post-Covid concepita dall’assessore alla Cultura, Matteo Lepore si annuncia all’insegna dell’intelligente disseminazione degli eventi, secondo una microfisica dello spazio urbano che corrisponde non di rado ad una vera e propria riscoperta della sua natura e delle sue potenzialità.
Resta la questione di piazza Rossini, sul delicato asse che dalle Torri porta a piazza Verdi. Una questione le cui implicazioni coinvolgono l’idea stessa di che cosa sia una città, e una città come Bologna in particolare. Al riguardo, l’ultimo scambio polemico verte sulla documentazione storica, secondo la quale ancora nel Settecento nella piazza in questione vi era davvero l’erba come adesso. È un’argomentazione da poco. Sarebbe troppo semplice trovare casi opposti, ad esempio in corrispondenza di via Orfeo, dove di recente è stato fatto sparire, senza che nessuno o quasi dicesse nulla, l’ultimo brano della
Bologna dei Carracci.
E così via, secondo la logica del battibecco all’infinito, la stessa alimentata da chi rimprovera a chi oggi protesta per il temporaneo impianto del prato di non aver detto o fatto nulla quando piazza Rossini era ridotta ad un parcheggio. Una città è un organismo vivente che riscrive in continuazione se stesso, e dipende dall’intelligenza dei cittadini farlo con segni il più possibile sensati, cioè dotati di qualità.
Il mai troppo rimpianto Andrea Emiliani lamentava spesso l’abolizione della vecchia «Commissione dell’Ornato», responsabile fino a qualche decennio fa di quel che una volta si chiamava «decoro urbano». Dove per decoro andava inteso anche qualcosa di sottile, molto affine alla reputazione, la stessa che di recente è valsa alla nostra università la conferma di essere tra le prime al mondo. Reputazione rispetto alla quale la sistemazione di piazza Rossini, che si compone di motivi per nulla originali, non pare all’altezza. E anche se l’opinione di chi scrive resta personale, un fatto è certo: Bologna meriterebbe di più.