Due ruote di cura
Andava in bici da bambino e non è mai sceso dalla sella, anche da medico al Maggiore Ora con un libro la celebra
Un atto d’amore incondizionato verso la bicicletta, compagna inseparabile di una vita condotta tra la natìa costa ligure e le salite dei colli bolognesi. Così si presenta il libro Una vita in sella. Storie, aneddoti e alcune considerazioni sulla bicicletta, da poco pubblicato da Pendragon. L’autore, Pier Roberto Dal Monte, è un medico già a capo del Dipartimento di Gastroenterologia degli ospedali Bellaria e Maggiore, che in bici ha iniziato ad andarci da bambino.
«Amo la bicicletta — confessa nella prefazione — perché permette di andare in quasi ogni punto di tutte le città nel raggio di 5-6 chilometri di distanza senza dover guidare, in mezzo al traffico, una noiosissima auto che ormai non sempre ci fa andare dove vorremmo, dati anche tutti i divieti di cui giustamente siamo circondati, e nel tempo che vorremmo. La amo perché non ci fa consumare carburante e quindi ci fa sentire nobilmente ecologici o ambientalisti e perché ci fa fare del moto, consumare calorie unendo davvero l’utile al dilettevole, e spesso ci fa sentire più giovani di quanto, ahimè, non siamo».
Le 237 pagine sono una raccolta di racconti autobiografici in cui la bicicletta è protagonista assoluta: «Una complice o testimone di ciò che hai visto o fatto e del perché proprio così hai agito: perché eri con lei e te lo ricorda. È la complice silenziosa delle tue avventure, quella che non solo rievochi proprio perché la ‘cavalcavi’, ma perché senza di lei non avresti per nulla fatto quello che poi hai fatto o meditato».
I ricordi partono dall’infanzia, da quando Dal Monte era uno sfollato che andava a scuola e ingaggiava impari sfide con le littorine ferroviarie. Per arrivare alle provvidenziali castagne mangiate crude dopo averle raccolte da gusci aperti, per sopperire a una crisi glicemica sulla pedecollinare Bazzanese. Dal Monte fornisce una descrizione anche antropologica dell’amatore della bicicletta. Uno che «si guarda intorno curioso studiando le strade che sta percorrendo per raggiungere il luogo del suo soggiorno, il suo albergo, la sede del suo congresso o delle sue vacanze... Guarda l’intensità del traffico lungo il percorso e nella zona circostante: se vi sono piste ciclabili o vi sono spazi percorribili per conoscere meglio la città».
Quella che si instaura grazie alla bici è anche una sfida personale, uno stimolo «a gare palesi o sottese perfino quando si è totalmente da soli, poiché anche in questa circostanza si è in competizione con se stessi: solo per dimostrarsi di essere forti o di esserlo ancora con il passare degli anni».
Un capitolo è dedicato alle fioriere di via Indipendenza, enormi vasi cilindri di granito sollevabili solo con una gru. Collocate nel 1989 e spostate l’anno dopo in parte alla Certosa e in parte lungo via Ferrarese, «in un tratto dove passa una scombinata pista ciclabile, ponendole a delimitazione col manto stradale con il risultato che tra la pista e la normale strada vi erano tratti di comunicazione ciechi coperti dalle enormi fioriere, non facilmente valicabili». Solo un rapido cenno per le bici elettriche o altri mezzi ‘assistiti’, «che per un vero ciclista sono un’offesa, anche se ecologicamente assai efficace e lodevole».
Non mancano invece tabelle sui consumi calorici, informazioni su crampi e rischi da caduta, così come analisi dei benefici effetti della bici sull’economia e riferimenti letterari, da Oriani e Gozzano a Yves Montand. Con Il bello
della bicicletta dell’antropologo Marc Augé sempre sullo sfondo: «La bicicletta obbliga a far attenzione al tempo e allo spazio. Quando ci si sposta in bicicletta si è più attenti agli altri, si sviluppano relazioni umane più dirette in un’epoca in cui la tecnologia e le abitudini le rendono più astratte».