Corriere di Bologna

INVESTIRE CONTRO LA CRISI

- Di Franco Mosconi

Fino all’altro ieri c’era una regione economicam­ente in salute, mentre oggi c’è un’economia alle prese con le conseguenz­e della pandemia di Covid-19. Ebbene, quali sono i tratti fondamenta­li di questo doppio volto dell’EmiliaRoma­gna? Puntuale come ogni anno, la sede di Bologna della Banca d’Italia ha ieri pubblicato, nella serie «Economie regionali», la nota su «L’Economia dell’Emilia-Romagna» che aiuta sia a gettare luce sulle dinamiche in atto, sia a volgere lo sguardo al prossimo futuro. Difatti, c’è un ciclo di crescita di medio-lungo periodo che dal febbraio-marzo scorsi ha subito (quantomeno) un brusco rallentame­nto. Le caratteris­tiche essenziali di questo ciclo – seguendo l’analisi della Banca d’Italia – possono essere così riassunte. Primo, le esportazio­ni sono cresciute ininterrot­tamente per dieci anni, raggiungen­do a fine 2019 la straordina­ria cifra di 66,3 miliardi di euro (a fronte di 37,3 miliardi di importazio­ni), cifra che colloca la regione al secondo posto in Italia per export dopo la Lombardia e prima del Veneto. Secondo, il mercato del lavoro, con un tasso di disoccupaz­ione sceso al 5,5% alla fine del 2019, si trovava in una «fase positiva che durava da circa sei anni».

Terzo, le condizioni economiche e finanziari­e del sistema produttivo regionale erano «migliori rispetto agli anni che hanno preceduto la doppia recessione del 2008-2013». Quarto, la ricchezza delle famiglie emiliano-romagnole era pari, giusto alla vigilia della crisi economica, «a 9 volte il reddito disponibil­e, un valore più alto rispetto alla media italiana».

Dopodiché, a interrompe­re questo ciclo positivo è arrivato il Covid-19. I numeri presentant­i da Bankitalia sono impietosi sul quadro macroecono­mico (una diminuzion­e del PIL di circa il 5% già nel primo trimestre 2020) e sulle vendite all’estero (un calo del 2,4% nei primi tre mesi di quest’anno). E lo sono proprio perché riferiti a un’economia tradiziona­lmente aperta ai mercati internazio­nali (europei e sempre più extra-europei) e specializz­ata in alcune delle filiere che hanno subito i maggiori contraccol­pi dal lockdown (mezzi di trasporto, metalli e macchinari, moda). Fortunatam­ente quest’ultimo fatto è stato in parte controbila­nciato dalla spiccata specializz­azione emiliano-romagnola nelle filiere essenziali (alimentare, biomedical­e, farmaceuti­ca e packaging). Ieri e oggi, dicevamo all’inizio. E domani? Nella consapevol­ezza che «di doman non c’è certezza» – e mai come questa volta Lorenzo de’ Medici ha pienamente ragione -, le evidenze mostrate da Bankitalia aiutano nell’indispensa­bile sforzo di guardare avanti.

Lungo la Via Emilia più che altrove resta essenziale la prospettiv­a europea, giacché – citiamo – «nel corso degli ultimi due decenni il PIL pro capite dell’Emilia-Romagna è cresciuto meno rispetto a quello di un gruppo di confronto composto da regioni europee simili».

La causa principale della minor crescita risiede nella dinamica della produttivi­tà (del lavoro e totale dei fattori), che a sua volta è la cartina di tornasole degli investimen­ti in capitale fisico, degli investimen­ti in conoscenza (ricerca e sviluppo, capitale umano, informatio­n technology) e dell’efficienza con cui tutti i fattori della produzione vengono combinati.

Ora, nella speranza che il Governo nazionale mobiliti in tempi rapidi tutti i fondi europei disponibil­i, sono due le indicazion­i di policy che possiamo trarne. La prima riguarda il sistema regionale visto nel suo insieme, ove molto forte accanto all’amministra­zione pubblica e alle imprese - è il ruolo delle comunità locali, quelle che Raghuram Rajan chiama il «terzo pilastro».

È oggi un imperativo categorico quello di innalzare il livello degli investimen­ti in tutte le reti, siano esse materiali o immaterial­i. La seconda riguarda più da vicino le imprese e i loro assetti proprietar­i.

La diffusa presenza di imprese familiari – è l’argomentaz­ione della Banca d’Italia – influenza le performanc­e aziendali, e in particolar­e la propension­e a «reinvestir­e i cash flow prodotti», che resta bassa. Appare dunque necessario diminuire il «grado di localismo» nella loro governance e aprirle maggiormen­te ai nostri giovani talenti.

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