INVESTIRE CONTRO LA CRISI
Fino all’altro ieri c’era una regione economicamente in salute, mentre oggi c’è un’economia alle prese con le conseguenze della pandemia di Covid-19. Ebbene, quali sono i tratti fondamentali di questo doppio volto dell’EmiliaRomagna? Puntuale come ogni anno, la sede di Bologna della Banca d’Italia ha ieri pubblicato, nella serie «Economie regionali», la nota su «L’Economia dell’Emilia-Romagna» che aiuta sia a gettare luce sulle dinamiche in atto, sia a volgere lo sguardo al prossimo futuro. Difatti, c’è un ciclo di crescita di medio-lungo periodo che dal febbraio-marzo scorsi ha subito (quantomeno) un brusco rallentamento. Le caratteristiche essenziali di questo ciclo – seguendo l’analisi della Banca d’Italia – possono essere così riassunte. Primo, le esportazioni sono cresciute ininterrottamente per dieci anni, raggiungendo a fine 2019 la straordinaria cifra di 66,3 miliardi di euro (a fronte di 37,3 miliardi di importazioni), cifra che colloca la regione al secondo posto in Italia per export dopo la Lombardia e prima del Veneto. Secondo, il mercato del lavoro, con un tasso di disoccupazione sceso al 5,5% alla fine del 2019, si trovava in una «fase positiva che durava da circa sei anni».
Terzo, le condizioni economiche e finanziarie del sistema produttivo regionale erano «migliori rispetto agli anni che hanno preceduto la doppia recessione del 2008-2013». Quarto, la ricchezza delle famiglie emiliano-romagnole era pari, giusto alla vigilia della crisi economica, «a 9 volte il reddito disponibile, un valore più alto rispetto alla media italiana».
Dopodiché, a interrompere questo ciclo positivo è arrivato il Covid-19. I numeri presentanti da Bankitalia sono impietosi sul quadro macroeconomico (una diminuzione del PIL di circa il 5% già nel primo trimestre 2020) e sulle vendite all’estero (un calo del 2,4% nei primi tre mesi di quest’anno). E lo sono proprio perché riferiti a un’economia tradizionalmente aperta ai mercati internazionali (europei e sempre più extra-europei) e specializzata in alcune delle filiere che hanno subito i maggiori contraccolpi dal lockdown (mezzi di trasporto, metalli e macchinari, moda). Fortunatamente quest’ultimo fatto è stato in parte controbilanciato dalla spiccata specializzazione emiliano-romagnola nelle filiere essenziali (alimentare, biomedicale, farmaceutica e packaging). Ieri e oggi, dicevamo all’inizio. E domani? Nella consapevolezza che «di doman non c’è certezza» – e mai come questa volta Lorenzo de’ Medici ha pienamente ragione -, le evidenze mostrate da Bankitalia aiutano nell’indispensabile sforzo di guardare avanti.
Lungo la Via Emilia più che altrove resta essenziale la prospettiva europea, giacché – citiamo – «nel corso degli ultimi due decenni il PIL pro capite dell’Emilia-Romagna è cresciuto meno rispetto a quello di un gruppo di confronto composto da regioni europee simili».
La causa principale della minor crescita risiede nella dinamica della produttività (del lavoro e totale dei fattori), che a sua volta è la cartina di tornasole degli investimenti in capitale fisico, degli investimenti in conoscenza (ricerca e sviluppo, capitale umano, information technology) e dell’efficienza con cui tutti i fattori della produzione vengono combinati.
Ora, nella speranza che il Governo nazionale mobiliti in tempi rapidi tutti i fondi europei disponibili, sono due le indicazioni di policy che possiamo trarne. La prima riguarda il sistema regionale visto nel suo insieme, ove molto forte accanto all’amministrazione pubblica e alle imprese - è il ruolo delle comunità locali, quelle che Raghuram Rajan chiama il «terzo pilastro».
È oggi un imperativo categorico quello di innalzare il livello degli investimenti in tutte le reti, siano esse materiali o immateriali. La seconda riguarda più da vicino le imprese e i loro assetti proprietari.
La diffusa presenza di imprese familiari – è l’argomentazione della Banca d’Italia – influenza le performance aziendali, e in particolare la propensione a «reinvestire i cash flow prodotti», che resta bassa. Appare dunque necessario diminuire il «grado di localismo» nella loro governance e aprirle maggiormente ai nostri giovani talenti.