LA TERZA ITALIA E IL FUTURO
Dopo i disastri sociali ed economici generati dalla Seconda guerra mondiale voluta dalla dittatura fascista e perseguita da Mussolini, l’Italia rinacque. Economicamente il cosiddetto boom fu favorito da diversi fattori, nazionali e internazionali, come il Piano Marshall, i Trattati di Roma, e le politiche keynesiane e distributive. Il «miracolo economico» interessò salari, esportazioni, occupazione, infrastrutture e innovazione tecnologica, in una logica di rilevanti investimenti pubblici. Il triangolo industriale correva tra i poli di Milano, Genova e Torino, città operaie e simbolo dell’urbanizzazione e dell’abbandono delle campagne e del Sud, sintetizzato nel celebre Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti.
A quel mondo dell’operaio-massa si affiancò, e in qualche misura si oppose, un’altra Italia, il cui sviluppo economico si basa(va) al contrario sull’imprenditorialità familiare e quindi sulla specificità delle piccole industrie rispetto allapproccio tayloristico della catena di montaggio.
La peculiarità poggiava soprattutto sulla coesione delle comunità locali, a diffuso «capitale sociale», che garantiva elevata fiducia, prevedibilità, condivisione di modelli di sviluppo. La «Terza Italia» ha rappresentato un modello, studiato e ammirato oltre i confini nazionali, e spesso osannato per la capacità di innovazione e generazione di ricchezza.
Quell’area faceva riferimento al Centro/Nord-Est, su cui insistevano diverse sub/culture politiche. In Veneto la Zona Bianca, di matrice cattolica e voto democristiano, e in EmiliaRomagna, Toscana e Umbria, l’influenza dell’apparato e della sub-cultura social-comunista, con forte sindacalizzazione.
Oggi, e da qualche lustro invero, quelle stesse aree sono sotto l’influenza leghista a nord del fiume Po, e del Partito democratico a sud di esso. La crisi economica/finanziaria ha investito il pianeta e nemmeno la Terza Italia ha potuto opporre resistenza, sebbene sia riuscita a tamponare meglio di altre regioni l’impatto e a riprogrammare il futuro. Ma gli aspetti positivi e l’elogio del modello economico della piccola/media impresa hanno talvolta sfiorato la mitizzazione.
Le aziende italiane, ad esempio, sono prevalentemente produttrici per altre aziende, cui legano inevitabilmente i loro destini in un contesto di forte fluttuazione e di nazionalismo economico, mentre ad esempio quelle tedesche sono in larga misura produttrici per il mercato finale. In un contesto di competizione globale non è detto che «piccolo» sia positivo e anzi molto di quella logica andrebbe aggiornato, persino ribaltato in taluni casi.
In questa direzione credo vada letta l’azione dei presidenti della giunta regionale di Veneto, Friuli Venezia Giulia ed EmiliaRomagna che hanno promosso una sorta di «distretto del turismo» post Covid19. Tuttavia, per proporsi all’esterno come «regione unica» è indispensabile avere politiche comuni sul piano dei trasporti, della sanità, della proposta culturale, e sulla gestione del patrimonio ambientale. Si tratta di politiche non neutre, in cui le differenze politiche tra Bonaccini e il duo Zaia/Fedriga non possono essere taciute, e non sarà la politica del turismo a colmarle.
Un passo avanti è stato compiuto, ed è positivo, ma oltre a connettere Verona con Rimini, ancora troppo lontane, va integrata anche la gestione dell’inquinamento e del consumo del suolo, su cui mi pare esistano lampanti differenti di governo regionale.
Dunque, la geografia economica muta e mutano anche gli interessi dei partiti e i paradigmi dello sviluppo economico in una fase di potente disuguaglianze.
Infine, il tutto va tenuto saggiamente insieme in una logica solidale e in un disegno istituzionale politico nazionale, non solo perché sancito in Costituzione, ma poiché essenziale per competere con le altre «Terze Italie» in giro per l’Europa e il Mondo.