LA LEZIONE DELLE VARIANTI
Per quanto in Emilia Romagna l’analisi delle varianti di SARS-CoV-2 sia già iniziata, non è difficile prevedere una loro progressiva infiltrazione e diffusione entro il territorio regionale. L’epoca delle varianti nella storia della pandemia trasforma il nostro nemico planetario in un bersaglio mobile e, in un certo senso, «intelligente», rendendo ancora più difficile la battaglia e più incerta la previsione di quando ne usciremo del tutto — se del tutto ne usciremo. Per capire il perché delle varianti, e derivarne qualche indicazione sul nostro futuro, serve rifarsi alla teoria fondamentale della biologia, l’evoluzione per selezione naturale di Darwin. Diceva il genetista Theodosius Dobzhansky: «Nulla ha senso in biologia se non alla luce dell’evoluzione». Anche se al confine fra la vita e la non-vita, i virus sono anch’essi oggetti biologici, distinti per essere incapaci di vita autonoma e talmente minimali che senza le cellule ospiti, dalle quali mutuano parte del sistema riproduttore, non potrebbero esistere. Ma per farlo, devono raggiungerle, queste cellule. Hanno un loro genoma che reca le istruzioni per l’arrembaggio, l’entrata, la costruzione delle loro parti, la fuoriuscita a infettare altre cellule.
Esuccede che durante questo processo il genoma viene copiato commettendo errori frequenti, i quali generalmente non impattano sul comportamento del virus. Lo fanno qualche volta, e il più di queste volte in senso negativo, producendo quindi varianti incapaci di infettare, o capaci di farlo in modo più inefficiente. Altre volte, molto, molto raramente, l’impatto è positivo, ovvero tale da aumentare quella che chiamiamo la fitness riproduttiva del virus. E allora la nuova versione di virus, dotata di questo «boost» conferitole dal caso, comincia a diffondersi a danno della versione madre e cresce nella popolazione fino a soppiantare la precedente.
Ora, il nostro peggior timore è ovviamente la comparsa di varianti più letali. Se SARS-CoV-2 non avesse un numero così grande di ospiti asintomatici, potremmo arrischiare la previsione che questo è improbabile, perché un virus molto letale spesso non ha grande infettività, perché il tempo di vita del suo ospite è breve — per questo, ad esempio, non temevamo così tanto che le ripetute epidemie africane di Ebola si trasformassero in una pandemia. Ma quando c’è un comparto così grande di diffusori asintomatici, tutto è possibile. La probabilità che la variante inglese sia anche più letale esiste — anche se mancano a oggi i numeri a confermarlo.
Il gioco darwiniano, quello che ha plasmato il mondo vivente, ha regole semplici e nessuna etica. Il nuovo coronavirus non è cattivo. Come tutti gli esseri viventi della biosfera, si adatta con lo scopo apparente di infettare più ospiti in modo più efficiente, ma in realtà non fa altro che sbagliare di poco nel riprodursi generando nuove possibilità, che poi vengono selezionate dall’ambiente. Questa è l’unica forza cieca della natura, come diceva Dobzhansky, che spiega tutto: l’evoluzione. I due milioni e mezzo di morti a tutt’oggi, l’economia mondiale in ginocchio sono danni collaterali di un meccanismo che ha anche prodotto l’emergenza della nostra specie. Se la cosa non può consolarci, forse può almeno avvertirci che studiare il più possibile questo meccanismo è l’unico, davvero l’unico modo che abbiamo per opporci alla calamità di oggi, e a quelle che potrebbero venire poi.