Gualtieri, ispirazione donna
La poetessa che immortalò il primo lockdown parla del femminile: «Le Muse non erano certo divinità maschili. Non è un caso». E sul presente: «Non mi abituo alle mascherine»
Vellutata e profonda, gioiosamente lancinante è la poesia di Mariangela Gualtieri, autrice di molti volumetti di poesia pubblicati da Einaudi, voce dello smarrimento per il primo lockdown con i versi, diffusi in tutto il mondo, di Nove marzo duemilaventi. Esplora, con sguardo incantato la fragilità, lo strazio e la gloria dell’umano nel mondo degli altri esseri.
Ci avviciniamo alla festa della donna. Cosa ci può dire una poetessa di questa ricorrenza?
«Sarebbe bello che l’otto marzo festeggiasse le donne, cioè la meraviglia, lo splendore delle donne. Mi viene in mente un verso di Gregory Corso che cito a memoria “senza le donne il cielo sarebbe di pietra”. Invece questa ricorrenza nasce da una ferita, una ferita millenaria che le donne hanno subito e ancora subiscono in gran parte del mondo. Vedendo come oggi in Italia sta fiorendo la poesia femminile, penso a quante voci, nei millenni, sono state soffocate, cioè di quanta ricchezza e bellezza si è privata la nostra specie nel zittire le donne».
Cos’è il talento femminile? «Penso ci siano attributi che connotano l’energia femminile, come l’aver cura, la leggerezza, la capacità di accoglienza, la delicatezza, la dolcezza, la dedizione, l’acutezza, la pazienza, la capacità di attenzione, e tanti altri. Questi attributi sono apprezzabili anche nell’uomo, anche se la donna è il miglior ricettacolo di certe qualità, legate fondamentalmente alla maternità e non solo. Il talento femminile è potente come quello maschile, con una dominanza a volte di questi attributi».
La poesia, arte dell’ascolto e dell’esplorazione di mondi sconosciuti, è un talento femminile?
«Non a caso, credo, le Muse erano divinità femminili. Mi sono sempre chiesta come mai, in un mondo nel quale alla donna era preclusa qualunque espressività, per simboleggiare l’energia ispiratrice, si fosse arrivati a un simbolo così decisamente femminile. Io credo sia perché alla base di ogni espressione artistica c’è un essere ingravidati, l’accoglienza di un’energia che ci feconda e che poi bisogna accudire. C’è nell’arte una gestazione e un parto, c’è tanto femminile».
Lei è attrice. Come ha trovato la parola poetica?
«Sono stata chiamata alla scrittura dal mio regista, Cesare Ronconi, il quale mi considerava poeta prima ancora che avessi cominciato a scrivere. È lui che un bel giorno, dopo tre spettacoli in silenzio, mi ha detto: “Scrivi, non senti che le parole sono già qui? Devi solo metterle sul foglio”. La sua richiesta ha coinciso con qualcosa che in me era maturato e che mi piace chiamare vocazione».
Come coltiva la parola poetica?
«Credo che la parola poetica germini dall’attenzione alla vita. Per essere attenti bisogna non preoccuparsi troppo di sé e avere la testa sgombra. Cerco in ogni giornata di abitare un silenzio – la poesia ha al centro il silenzio – e di stare fra piante e animali, in quella che chiamiamo Natura».
Come guarda il mondo intorno, oggi?
«Questa mattina, camminando in centro, non potevo capacitarmi delle facce coperte da mascherine. Non riesco ad abituarmi, e anche dopo un anno, provo sempre una gran pena. Mi mancano tanto le facce, le bocche che ridono, le nostre facce che erano musi e che forse per passione della parola sono diventate volti aperti, chiari. E poi mi mancano gli abbracci, tantissimo».
Come lo guarda, il mondo intorno, la sua poesia?
«La mia poesia è in dialogo col grande aperto del cielo e cerca di abbracciare tutto. Perciò sente terribilmente la sofferenza dei nostri simili in primo luogo e poi quella che infliggiamo a milioni e milioni di esseri viventi di cui ci nutriamo. Sa che la nostra specie non può fare a meno di divorare mondo e vede il terribile squilibrio che portiamo ovunque. Forse il femminile è proprio quell’energia che si oppone al nostro naturale essere predatori e ci rende capaci anche di scrivere versi, di cantare la bellezza e lo strazio del mondo».