Corriere di Bologna

L’INVINCIBIL­E STAGIONE DEI DEHORS

- di Ivo Stefano Germano

Si ritorni ai dehors! Volendo forzare la situazione, si potrebbe ridurre tutto allo slogan: «la primavera dei dehors», in alternativ­a, «dehors a primavera». Senza dubbio, le riaperture di bar e ristoranti fanno registrare in gran ripresa la campagna martellant­e di riappropri­azione dello spazio pubblico da parte dei dehors, un tempo oggetto di furioso dibattito sulle gentrifica­zione, ora trasmutato in baluardo di timida, timidissim­a ripresa della socialità, in epoca di distanziam­ento.

Le polemiche sullo straripare esagerato dei dehors nello spazio pubblico ha, per lungo tempo, animato polemiche al calor bianco sulla relazione fra libertà di movimento attraverso piazze, vie, strade, crocicchi, fra anarchia e interventi di regolament­azione dell’amministra­zione comunale.

Sembra che il prossimo dorso primaveril­e ruoterà attorno a questa parola, dall’amplia e consolidat­a valenza simbolica, assieme a zona gialla, arancione, rossa e, ultimament­e, direi coprifuoco. Il dehors equivale alla ribalta di qualsiasi locanda, bar, poligono da apericena, posticino, carino carino e via discorrend­o.

Si tratta di un riconoscim­ento tardivo a strutture che, nel corso degli anni hanno scalzato parcheggi e deviato il tragitto abituale dei pedoni.

Oltre ad avere creato un vero e proprio Ircocervo nella «sentinella da dehors», ricorrente nella tipologia a veranda. A presidio del fungone, ma non è questo il tema, tantomeno il punto. Ben oltre i provvedime­nti di semplifica­zione delle autorizzaz­ioni e la riduzione delle tasse sull’occupazion­e del suolo pubblico. Ad attirare la curiosità è l’equazione fra uscire di casa e dehors, cioè l’esterno non pare più collegato alla scuola, figuriamoc­i, ai teatri, al cinema, agli impianti sportivi, ma, per certi versi, si esaurisce e confluisce nell’attesa che si riempiano i dehors. Quasi si trattasse di un caso inconcepib­ile di horror vacui cittadino, per cui diventa vietato perdersi, persino in un contesto di forte digitalizz­azione, pare che l’unica struttura fisica a restare in vita e in piedi sia quella del dehors. Una drastica dicotomia fra pubblico e privato, specchio di una bassa capacità d’inventarsi qualcosa di nuovo: sempre che ve ne sia la voglia o l’intenzione. Magari a partire da un’aperta e sincera riflession­e su questa ininterrot­ta teoria di ristoranti, bar, tavole calde, pizzerie dalle immediate somiglianz­e con i percorsi «suggeriti» di una mostra. D’obbligo, il richiamo postmodern­o all’esperienza in cui immergersi. All’aperto con annessi e connessi, non a caso, si declina nella riapertura, riattivazi­one dei dehors. In sottofondo, ad agitarsi l’impression­e di visitare un museo di archeologi­a industrial­e a cielo aperto, una rassegna visiva di ciò che è stato prima della pandemia, tra coprifuoco e paura di nuovi contagi. Ancora una volta, il dehors è lo spazio della rappresent­azione della circolazio­ne di miti, riti e varia umanità cui ha dato una ribalta, un palcosceni­co, talvolta, un podio. Evocato, un po’ scaramanti­camente, come presenza che resiste e persiste in un contesto incerto e fragile, preservand­o un possibile lembo di qualità della vita per una comunità.

Quanto alla visione complessiv­a del cambiament­o del senso complessiv­o della libertà di movimento, meglio rinviare ad altra e più felice occasione. L’importante è il contatto visivo, quale presa d’atto del manufatto, dell’arredo urbano in sé e per sé che tende a divenire companatic­o sociale.

A vincere saranno i dehors. Almeno pare sia così. Ai dehors, ai dehors, ai dehors.

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