L’INVINCIBILE STAGIONE DEI DEHORS
Si ritorni ai dehors! Volendo forzare la situazione, si potrebbe ridurre tutto allo slogan: «la primavera dei dehors», in alternativa, «dehors a primavera». Senza dubbio, le riaperture di bar e ristoranti fanno registrare in gran ripresa la campagna martellante di riappropriazione dello spazio pubblico da parte dei dehors, un tempo oggetto di furioso dibattito sulle gentrificazione, ora trasmutato in baluardo di timida, timidissima ripresa della socialità, in epoca di distanziamento.
Le polemiche sullo straripare esagerato dei dehors nello spazio pubblico ha, per lungo tempo, animato polemiche al calor bianco sulla relazione fra libertà di movimento attraverso piazze, vie, strade, crocicchi, fra anarchia e interventi di regolamentazione dell’amministrazione comunale.
Sembra che il prossimo dorso primaverile ruoterà attorno a questa parola, dall’amplia e consolidata valenza simbolica, assieme a zona gialla, arancione, rossa e, ultimamente, direi coprifuoco. Il dehors equivale alla ribalta di qualsiasi locanda, bar, poligono da apericena, posticino, carino carino e via discorrendo.
Si tratta di un riconoscimento tardivo a strutture che, nel corso degli anni hanno scalzato parcheggi e deviato il tragitto abituale dei pedoni.
Oltre ad avere creato un vero e proprio Ircocervo nella «sentinella da dehors», ricorrente nella tipologia a veranda. A presidio del fungone, ma non è questo il tema, tantomeno il punto. Ben oltre i provvedimenti di semplificazione delle autorizzazioni e la riduzione delle tasse sull’occupazione del suolo pubblico. Ad attirare la curiosità è l’equazione fra uscire di casa e dehors, cioè l’esterno non pare più collegato alla scuola, figuriamoci, ai teatri, al cinema, agli impianti sportivi, ma, per certi versi, si esaurisce e confluisce nell’attesa che si riempiano i dehors. Quasi si trattasse di un caso inconcepibile di horror vacui cittadino, per cui diventa vietato perdersi, persino in un contesto di forte digitalizzazione, pare che l’unica struttura fisica a restare in vita e in piedi sia quella del dehors. Una drastica dicotomia fra pubblico e privato, specchio di una bassa capacità d’inventarsi qualcosa di nuovo: sempre che ve ne sia la voglia o l’intenzione. Magari a partire da un’aperta e sincera riflessione su questa ininterrotta teoria di ristoranti, bar, tavole calde, pizzerie dalle immediate somiglianze con i percorsi «suggeriti» di una mostra. D’obbligo, il richiamo postmoderno all’esperienza in cui immergersi. All’aperto con annessi e connessi, non a caso, si declina nella riapertura, riattivazione dei dehors. In sottofondo, ad agitarsi l’impressione di visitare un museo di archeologia industriale a cielo aperto, una rassegna visiva di ciò che è stato prima della pandemia, tra coprifuoco e paura di nuovi contagi. Ancora una volta, il dehors è lo spazio della rappresentazione della circolazione di miti, riti e varia umanità cui ha dato una ribalta, un palcoscenico, talvolta, un podio. Evocato, un po’ scaramanticamente, come presenza che resiste e persiste in un contesto incerto e fragile, preservando un possibile lembo di qualità della vita per una comunità.
Quanto alla visione complessiva del cambiamento del senso complessivo della libertà di movimento, meglio rinviare ad altra e più felice occasione. L’importante è il contatto visivo, quale presa d’atto del manufatto, dell’arredo urbano in sé e per sé che tende a divenire companatico sociale.
A vincere saranno i dehors. Almeno pare sia così. Ai dehors, ai dehors, ai dehors.