Luce sul libero arbitrio
Dall’omicidio Moro, Garolla si interroga sul senso della storia, della libertà e delle responsabilità
Il caso Moro, oggi, visto con gli occhi di chi nel 1978 non c’era ancora. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo èil titolo di un nuovo spettacolo che nasce da un passaggio cruciale dell’ultima lettera che Aldo Moro scrisse alla moglie Eleonora. Atteso da questa sera al 2 aprile in prima assoluta al Teatro delle Moline per la regia di Francesca Garolla, anche autrice del testo, il lavoro, prendendo piede dai giorni del sequestro del presidente della Dc si interroga sul libero arbitrio e le conseguenze che ne possono derivare (ore 21, mercoledì, alle 19, domenica, 18.30. Lo spettacolo è l’ultima parte di una trilogia sul tema della libertà, co-produzione Lac Lugano ed Ert. Info 051/2910910).
«Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo», scriveva Aldo Moro all’amata Noretta. Nel 1978, alla sua morte, Francesca Garolla, autrice attiva in Italia e in Francia, non era nata. «Non ho vissuto — racconta — i fatti che a quella morte hanno portato e che quella morte ha provocato. I miei ricordi hanno solo l’eco di quella storia, un’eco infantile. Suggestioni, racconti riferiti, romanzati, probabilmente non veritieri, ripetuti a me stessa come fossero leggenda. Ma anche se assente, la mia generazione ha ereditato quei fatti come se li avesse vissuti».
Garolla inizia la sua analisi dalla telefonata del 9 maggio 1978 tra il brigatista Valerio Morucci, allora 29enne, e il professor Francesco Tritto, assistente universitario dello statista. È in quell’occasione che l’esponente delle Br, presentandosi come «il dottor Nicolai» fornisce indicazioni su dove si troverà il cadavere di Moro. Quella telefonata diventa qui una sorta di pre-testo per riflettere su un’eredità che ancora ci riguarda. Scrive Garolla nelle note di regia: «Questo episodio, la telefonata, questa lotta per una libertà privata del valore della vita, diventano per me simbolo di un tempo interrotto, bloccato,
che ha scartato in una direzione e non in un’altra. Un qualcosa che ci condiziona e ci ha condizionato, qualcosa che forse non volevamo: un’eredità. Ma chi si prende, oggi, la responsabilità di quell’eredità? Chi si prende la responsabilità del passato nel presente? E chi quella del presente e del futuro?».
Sulla scena, quattro interpreti, due uomini, due donne — Giovanni Crippa, Angela Dematté, Paolo Lorimer, Anahì Traversi — rappresentano proprio quelle responsabilità. Gli uomini incarnano il passato che ha condizionato il presente, le donne analizzano quel passato per cercare di costruire un futuro. Rappresentano anche ruoli precisi. Quello di un latitante che è anche padre, di una figlia a sua volta madre, un assassino e una giudice. E ognuno di loro rilegge la storia e i protagonisti. Lo faranno, ancora Garolla, «attorno a un tavolo mortuario, un oggetto-palcoscenico adatto a un’autopsia della Storia, tra morte e aula di tribunale, cenacolo e pulpito pagano. Ma a quale funerale si assiste? A quello di una libertà che, quando non si interroga sulle sue conseguenze, perde di senso, di valore e di possibilità? E chi aspetta di essere seppellito? Moro? La storia? La nostra stessa memoria? In assenza di un corpo, esattamente come accadde alle esequie di Stato del presidente, dove fu celebrata una bara vuota, è difficile seppellire un morto?».
” Chi abbiamo seppellito? Aldo Moro, la storia o la memoria? Chi si prende la responsabilità di quella eredità?