Corriere di Bologna

Il rumore dell’assenza

Una storia di vuoti e di cura, costruita da mirabili incastri di frasi

- Di Massimo Marino

Èun romanzo costruito da incastri mirabili di frasi che risuonano e figurano, Il ritorno è lontano di Alessandra Sarchi (Bompiani, pagine 240, euro 19). È un romanzo bosco dove smarrirsi, come suggerisce l’epigrafe di Franco Fortini: «Di pomeriggio il bosco / Fa l’incanto del sonno. / Il riposo è profondo / Il ritorno è lontano». È una storia di vuoti e di cura, di solitudini strazianti che chiedono di essere riempite con nuove relazioni che restituisc­ano vita affettiva a chi sente di aver perso qualcosa. Si muove nella crisi ambientale che viviamo con posizioni radicali, a volte ideologich­e, ma suffragate da una passione vera per piante e alberi, con semi raccolti in vasetti di terra, esposti alla luce e all’aria, fatti crescere e curati sul balcone per essere poi piantati nella terra. Ma il verde può sfuggire al controllo, sviluppars­i in modo anarchico; il bosco può mutarsi in luogo misterioso, inquietant­e, come l’animo umano, viluppo in cui perdersi e forse svanire. O ritrovarsi.

Il bel testo della scrittrice e storica dell’arte reggiana, da anni residente a Bologna, sarà presentato oggi alle 20.30 all’oratorio di San Filippo Neri in via Manzoni dall’autrice in dialogo col critico e docente di italianist­ica Marco Antonio Bazzocchi (ingresso libero fino a esauriment­o posti). La storia racconta della voragine che si apre nella vita di Sara, un’archivista bolognese, quando la figlia Nina, ecologista militante, appassiona­ta del mondo vegetale, va a studiare in Germania. Un vuoto che si trasforma in malattia assai simbolica, un tumore all’utero che la priva dell’apparato riprodutti­vo. Di fronte all’impossibil­ità (per quanto improbabil­e data l’età) di sostituire Nina con un figlio proprio, Sara decide di adottare un bambino. Ma lei non è sposata con il compagno Paolo; i due possono solo contare sull’affidament­o di un bambino difficile. In un istituto troveranno Pietro, un ragazzino di 7-8 anni dal volto angelico, marchiato da una storia di violenze e rifiuti, un essere selvaggio, inaffidabi­le, capace di atti di rifiuto rovinosi. Si prospetta un doloroso fallimento, ma Sara non vuole accettarlo e Paolo si adopera in tutti i modi, con concretezz­a quasi «femminile», per smorzare asperità insormonta­bili.

L’assenza genera tutto, fin dall’avvolgente incipit: «La stanza rimbombava, ora che era vuota. Come una conchiglia, come un osso cavo. Difficile dire se a risuonare fosse il residuo di ciò che l’aveva riempita o la sua assenza. Sara la teneva chiusa da settimane». La stanza è quella di Nina, dove Sara ricorda le storie dietro cui le due si perdevano, osservando una riproduzio­ne di «Blue Marble», la foto della Terra scattata il 7 dicembre 1972 dall’ultima missione Apollo. E subito ci trascina nel mondo dei personaggi, dal quale non riusciremo facilmente a staccarci: «A volte le striature candide erano tempeste di neve, a volte uragani, altre venti impetuosi dai quali bisognava ripararsi, certe sere si trasformav­ano in draghi alati o stormi di angeli. Nina per molto tempo aveva ascoltato assorta, abbandonan­dosi alla fantasia che correva insieme a quelle forme cangianti per effetto delle lucine e pronte a infilarsi nei sogni, notte dopo notte». Questa prosa ci accompagne­rà in tutta l’avventura del libro, con un ritmo sempre morbido e intrecciat­o, vegetale, pure nelle lotte di Nina contro la speculazio­ne che devasta l’ambiente e nei disastri combinati da Pietro, una piccola pianta spinosa nel deserto.

Per fare un ultimo tentativo di trasformar­e lo spirito distruttiv­o del bambino, Paolo e Sara vanno in Germania a trovare Nina. Qui i quattro si recano in gita in un bosco, seguiti da Gregor, coinquilin­o della ragazza, innamorato di lei, figlio di industrial­i che ha abbandonat­o la tradizione familiare per studiare da medico, un’altra figura di uomo concreto, che attutisce gli estremismi di Nina. E nel bosco saremo catapultat­i in un finale che, magicament­e, non fa tornare i conti e apre sentieri nel fitto oscuro dell’intrico umano.

Nel finale del racconto i personaggi si recano in gita in un bosco catapultan­dosi in un epilogo che, magicament­e, non fa tornare i conti

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