Fatica, riscatto, collage
Le pescatrici del Delta e le detenute del carcere di Modena, in mostra donne che fanno comunità
Il lavoro come forma di riscatto e il collage come espressione di libertà. L’arte tiene insieme la fatica delle pescatrici del Delta del Po e la voglia di riscatto delle detenute del Carcere di Modena. Nella mostra «(In)curabile bellezza. Donne che fanno comunità», che racconta attraverso fotografie e collage l’esperienza del laboratorio di educazione all’arte che ha fatto incontrare una comunità di pescatrici emiliane con un gruppo di detenute e volontarie delle associazioni modenesi Centro documentazione donna, Casa delle donne contro la violenza e Carcere-Città. Un incontro che parte dal coraggio e dalla determinazione di donne che, pur nell’anonimato del modo in cui hanno scelto di definirsi, Collettivo No name, hanno fatto nascere una comunità basata sui valori della sorellanza e della cura.
Oggi alle ore 15 l’inaugurazione dell’esposizione nella sede dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna con la presidente Emma Petitti, il garante dei detenuti della regione Emilia-Romagna Roberto Cavalieri, Caterina Liotti del Centro Documentazione donna di Modena, le artiste e la curatrice Federica Benedetti. Una storia che è diventata anche Collettivo No Name, una pubblicazione curata da Caterina Liotti, edita da Mucchi, che funge anche da catalogo alla mostra. Il volume raccoglie alcuni testi che Anna Perna, Paola Cigarini e Caterina Liotti hanno scritto sui temi della sorellanza, dei bisogni disattesi e della spersonalizzazione. Una narrazione nuova, spiega Liotti, «che racconta qualcosa di apparentemente inconciliabile con la durezza del luogo in cui tutto ciò è avvenuto: la nascita di uno spazio di inaspettata bellezza».
I contributi forniti da Grazia Zuffa, autrice di ricerche nazionali sul tema, inquadrano poi nel contesto italiano le problematiche legate alla detenzione femminile. Mentre Claudia Löffelholz, direttrice della Scuola di alta formazione Fondazione Modena Arti Visive, indaga su
come il linguaggio dell’arte possa aiutare a costruire una società più inclusiva, empatica e solidale. Per Vittorina Maestroni, presidente del Centro documentazione donna, «la lontananza dagli affetti, la separazione dai figli soprattutto, ma anche dai genitori e dai partner, sono tra i fattori di maggiore sofferenza per le detenute. In carcere è, ancora oggi, difficile avere colloqui, incontri o notizie delle persone care, nonostante il mantenimento delle relazioni esterne sia segnalato dall’Organizzazione mondiale della sanità come fattore di protezione della salute psicofisica delle persone detenute e il difficile ruolo del volontariato che ostinatamente tenta un incontro tra il “dentro” e il “fuori».
Proprio per questo sono nati percorsi di incontro e scambio relazionale, da donna a donna, come quelli raccontati in mostra. Capaci di ricostruire autostima e fiducia in se stesse. «Abbiamo cercato — continua Maestroni — di spostare l’attenzione dalla singola donna alle relazioni e alla “cura” delle relazioni stesse, anche con le donne da cui, in quel contesto, si è dipendenti, altre detenute, agenti di custodia, educatrici». Per far assumere consapevolezza e responsabilità verso la propria storia, dentro la quale si colloca anche il reato. La mostra sarà visitabile fino al 15 marzo dal lunedì al venerdì dalle 9,30 alle 18 in viale Aldo Moro 50.
Maestroni Abbiamo cercato di spostare l’attenzione dalla singola donna alle relazioni e alla cura delle relazioni stesse