«In carcere c’è la vita»
Al San Filippo Neri, Bignardi dialoga con Avallone sul suo ultimo libro «Ogni prigione è un’isola»
Il carcere. Qual è il nostro rapporto con il luogo che sembra contenere tutti gli scarti della nostra società, tutto quello che riproviamo, che non vogliamo vedere? Daria Bignardi inizia il suo nuovo libro, Ogni prigione è un’isola (Strade blu Mondadori, pagine 168, euro 18.50), riportando una seduta con il suo analista. Cerca di spiegare perché, negli anni, si è tanto interessata alle prigioni, perché le ha frequentate con attività varie, perché ne ha seguito i problemi, le rivolte nel periodo del Covid, le morti, le attività che cercano di rendere reale il tema della «rieducazione» evocato dall’articolo 27 della Costituzione.
Confessa: «Non è che le prigioni mi piacciano, al contrario. Ma dentro c’è l’essenza della vita: l’amore, il dolore, l’amicizia, la malattia, la povertà, l’ingiustizia...». E continua: «Il carcere è come la giungla amazzonica, come un paese in guerra, un’isola remota, un luogo estremo dove la sopravvivenza è la priorità e i sentimenti primari sono nitidi. È un posto dove tutto è più chiaro, capisce?».
Il carcere è qualcosa di profondo, che la implica tanto da parlarne in una seduta psicanalitica: è un luogo chiuso, isolato, protetto, ma anche esposto a mille insidie, come un’isola. Del libro, dei luoghi di reclusione, delle attività che vi ha svolto, degli incontri con le persone, con i reclusi ma anche con giudici, direttori e agenti, parlerà lunedì alle 18 all’Oratorio di San Filippo Neri in un incontro realizzato in collaborazione con la libreria Mondadori. Interverrà Silvia Avallone, un’altra scrittrice «stregata» dalle attività in carcere, che ambienta una parte del suo ultimo romanzo, Cuore nero (Rizzoli), nel carcere minorile di via del Pratello a Bologna, immaginandolo come un istituto femminile.
Signora Bignardi, che cosa ha fatto e che cosa fa in carcere?
«Negli anni ho lavorato con tanti diversi gruppi di detenuti a vari progetti: scrittura, interviste, coro, lavoro nelle scuole, convegni. Ci sono entrata la prima volta nel 1998 mi sembra, e non ho più
smesso di andarci. Soprattutto a San Vittore. Ma sono stata anche a Bollate, a Poggioreale, al carcere femminile di Pozzuoli. Anche al femminile di Tirana».
Dal libro risulta che lei ha lavorato su come dall’interno si percepisce il mondo esterno. Ci può raccontare qualcosa? Per esempio, come sono visti i media?
«La televisione è l’unica cosa garantita in carcere, l’unico contatto con l’esterno. Non c’è internet, non ci sono i giornali. I detenuti sono grandi esperti di televisione. Vent’anni fa a un gruppo avevo dato da scrivere per due anni la rubrica televisiva del mensile che dirigevo. Le loro rubriche spesso erano esilaranti. In carcere a volte si ride anche, come a scuola».
I problemi del carcere?
«Sono i problemi di fuori ma all’ennesima potenza: la povertà, le differenze sociali ed economiche, l’ingiustizia sociale, la malattia, le dipendenze, i problemi psichiatrici. In più c’è il sovraffollamento (61mila presenze per 47mila posti), i problemi strutturali. In carcere soffrono tutti, detenuti e agenti».
È trasformabile il carcere?
«Lo sarebbe, ma ci vorrebbe un enorme impegno, e la politica non vuole prenderselo, perché non porta voti, anzi».
È sempre necessario?
«Tutti quelli con cui ho parlato, soprattutto addetti ai lavori come direttori agenti e giudici, mi hanno detto che di 61mila detenuti forse avrebbe senso che fossero reclusi in seimila».