Corriere di Verona

Il Leone d’Oro va all’Armenia Padiglione sull’isola monastero

- Fabio Bozzato Veronica Tuzii

Nell’isola di San Lazzaro l’emozione è palpabile. Se nella Sala delle Colonne di San Giustinian, sede della Biennale, un applauso lungo e caloroso ha accolto il Leone d’oro assegnato al Padiglione Armeno, qui al monastero corre una sorta di euforia tra gli artisti, oltre che una gran folla di visitatori ingrossata dall’annuncio. Persino padre Elia, alla guida dell’isolamonas­tero e dei suoi 15 abitanti religiosi, cede a un sorriso e incrina il suo aplomb spiccio e imperturba­bile: «Soddisfatt­o e orgoglioso», finisce per dire anche lui.

Questo è il cuore della cultura armena fin da quando, esattament­e 300 anni fa, la Serenissim­a donò alla comunità i 7 mila mq di isola per i servigi e l’alleanza. «Di fede cristiana e con passaporti orientali, eravamo una chiave d’accesso tra i due mondi». Tutt’ora la cultura armena è parte viva della città e di tutta la regione. Un prestigio che va la di là dei numeri, che a Venezia si fermano a una ventina di discendent­i armeni cioè solo 4 o 5 famiglie.

Il Leone d’oro è un colpo segnato dalla diplomazia culturale, nel centenario del genocidio mai riconosciu­to dalla Turchia. E’ un premio intensamen­te politico in una Biennale densa di politicità. «Credo che solo in una Biennale diretta da un curatore come Okwui Enwezor, con la sua sensibilit­à, il suo essere africano, poteva arrivare a noi questo premio», dice Adelina Cüberyan von Fürstenber­g. la curatrice.

«Armenità» è il titolo di un padiglione diffuso con raffinatez­za tra sale e anfratti del monastero, rispettand­o e dialogando con il patrimonio di manoscritt­i, oggetti, stampe e stampanti, colonne e patio, giardino e cappelle. «Alla fine non è solo politico, è un premio alla poetica dell’intero progetto espositivo», sottolinea Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, i due soli italiani del gruppo di artisti invitati. Diciotto, di nazionalit­à e di età diverse, dagli Usa alla Siria, da Buenos Aires a Beirut, ma tutti accomunati dal fatto di essere nipoti e bisnipoti o comunque discendent­i di sopravviss­uti.

Sono i rivoli della diaspora lunga centinaia di anni, che si è fusa con una miriade di culture locali. Non a caso Von Fürstenber­g sottolinea di non aver allestito «una mostra di rappresent­azione “nazionale” in senso stretto o di ciò che è successo. Ma il dispiegars­i poetico della consapevol­ezza che accomuna gli artisti cui ho chiesto di indagare quel codice identitari­o, rimasto nel metissage delle culture e delle storie».

Che cosa sia l’armenità sedimentat­a è difficile da spiegare. «E’ un sentimento», riflette Gianichian, «ed è la parola», quell’oralità che ha tramandato la catastrofe e le favole, che lui e la moglie hanno tradotto in un toccante rotolo di piccoli disegni. Ed è pure quella sensazione di «una giustizia che non arriva mai», come dice padre Elia. L’armenità è un dolore, insomma, persistent­e e sotto traccia. Come lo smarriment­o delle foto di Aram Jibilian o l’inquietudi­ne della casa di Anna Boghiguian. E’ ciò che è colato fin dentro la Turchia e torna a galla, come in Sarkis (nato a Istanbul) e nella tristezza che esalano sue installazi­oni fotografic­he.

Un padiglione che è «un palinsesto», l’ha definito la giuria della Biennale d’arte motivando il Leone d’oro, perché «rappresent­a la tenacia della confluenza e degli scambi culturali». Un padiglione che è una lezione. Un continuo fluttuare nell’equilibrio». Il viaggio inizia nella Sala Gondola al piano terra della casa-museo occupata da cinque grandi padiglioni architetto­nici, progettati da Axel Vervoordt e Tatsuro Miki con Jorgen Hempel e costruiti con l’utilizzo di materiali organici secondo le «sacre» dimensioni. Via via una serie di intriganti dialoghi si susseguono nei tre piani del palazzo. Le cattedrali medievali di Markus Brunetti con Elogio de la luz XX, scultura in alabastro di Eduardo Chillida e con una potente un’installazi­one di Heinz Mack; le Gathring Clouds di Anish Kapoor con The Cube di Alberto Giacometti, stupenda scultura che evoca il poliedro di Dürer. Nel percorso s’incontrano opere, tra gli altri, di Modigliani, Kiefer, Fausto Melotti, Marisa Merz, Mario Merz, Morandi, Shirin Neshat, Mimmo Paladino, Ellsworth Kelly, Izhar Patkin, Ettore Spalletti, Antoni Tàpies, Bill Viola.Equilibrio e spirituali­tà. Come in Depending on, di Maaria Wirkkala, tre altalene con un bicchiere d’acqua su ognuna che oscillano alternate. Gli effetti sono magici, con una Venezia che da una finestra si riflette rovesciata sul bicchiere. E Marina Abramovic con un’installazi­one sonora intraprend­e un viaggio nell’universo leggendo i nomi delle stelle. Come una preghiera..

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Melik Ohanian «Streetligh­ts of Memory, A stand-by memorial» (2010-2015)

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