«Quella scritta contro i partigiani che provocò lo sdegno di Ingrao»
Il racconto di Polo: «L’ultima volta venne nel 1996. Era una persona sobria»
«Io lo conoscevo bene, Pietro Ingrao…». Gianbattista Polo, per molti anni uno degli esponenti più noti della sinistra del Pci a Verona (partito da cui uscì, assieme al leader, dopo la svolta della Bolognina che diede vita al Pds), ricorda con commozione il vecchio leader scomparso. E rammenta la sua ultima visita nella nostra città, nel 1996: «Ricordo che all’arrivo, insorse con sdegno quando vide una scritta che imbrattava i muri della facoltà di Lettere e che denigrava i partigiani e la Resistenza. All’interno – racconta Polo – molti giovani gremivano la sala. In quell’occasione, Ingrao presentò anche il suo libro ”Appuntamenti di fine secolo”, che aveva scritto assieme a Rossana Rossanda. Ciò che ci colpì in lui fu la riservatezza che si percepiva anche dai tratti del viso, che si scioglieva man mano che articolava il suo pensiero. La platea rimase colpita dalla sua sobrietà, da un modo di ragionare che sapeva sempre unire la sfera politica alla vita reale».
Quanto alla vita di quel gruppo politico, Polo ricorda che «lui non voleva che ci definissimo ingraiani, perché rivendicava per sé anche la sfera dei propri dubbi, soprattutto quando dubitava di aver fatto un errore».
Un momento delicato fu proprio quello della fine del Pci, dopo la Bolognina, e Polo ricorda che «Ingrao ci spiegò che si era opposto alla svolta di Occhetto non perché avesse nostalgia del nome del partito, ma perché intravvedeva una nuova stagione della politica, avallata dalla sinistra, che si sarebbe alimentata di tatticismo senza più una vera critica al sistema, perché l’obiettivo del Pds era quello di arrivare il più velocemente possibile al governo anche se ciò significava sacrificare la parte più debole della società che la sinistra fino ad allora aveva rappresentato. E lui disse: no, non ci sto».
Dopo quella conferenza all’Università, racconta ancora Polo, «lo portammo a cena in una trattoria di Dossobuono, perché lui amava i posti alla mano e tranquilli. Gli regalammo un quadretto d’argento, che raffigurava il balcone di Giulietta, di cui fu felicissimo. Amava la nostra città anche per il mito dei due amanti shakespeariani. E quella fu l’ultima volta che venne a Verona».
Dopo la Bolognina temeva che la sinistra restasse bloccata nel tatticismo