Corriere di Verona

IL NORDEST DEL BENE COMUNE

- Di Stefano Allievi

Èil Veneto della solidariet­à che si è mosso, con grande prontezza, fin dalle prime ore della mattinata di ieri, per portare aiuti alle popolazion­i terremotat­e, attraverso la protezione civile, i vigili del fuoco, le unità cinofile, i carabinier­i, medici e infermieri, e altri volontari.

E’ il Veneto dell’apertura – non solo dei cuori – quello che da subito ha dato disponibil­ità ad ospitare nelle sue strutture sanitarie i feriti a causa del sisma, e ad aiutarli nel concreto, rapidament­e. Per una volta, riconosciu­to e ringraziat­o come tale anche dal governo centrale.

Credo che in molti abbiamo provato – nel dolore per le sofferenze altrui – un moto di gioia, di soddisfazi­one, e anche di gratitudin­e per chi ci governa (non facile a provarsi in circostanz­e ordinarie…), nel vedere la reazione immediata, anche istituzion­ale, voluta dal presidente Zaia, alla disgrazia che ha colpito altri nostri concittadi­ni. Perché questo è un tesoro che questa terra ha a disposizio­ne, e qualche volta sembra passare in secondo piano, o viene offuscato da situazioni, occasioni, parole che vanno nella direzione opposta.

Quella della chiusura di menti e cuori anziché quella dell’apertura degli uni e delle altre. Questa forma di condivisio­ne spontanea e immediata, ma anche efficiente, organizzat­a, profession­ale nella sua eccellenza veneta, ci riconcilia con le istanze profonde del nostro essere individui sociali: che, come ci dicono studi sempre più approfondi­ti, ha fatto di quella umana una specie dominante anche perché capace di altruismo, per interesse e convenienz­a, ma anche per il piacere che trasmette e le energie che mette in moto. Tanto che ci domandiamo perché, in altre occasioni, queste energie vengano immobilizz­ate, non spese, rinchiuse in un timore forse facile da comprender­e ma difficile da accettare, nella prospettiv­a appena descritta. E’ bellissimo, invece, e da’ gioia, poter essere fieri di sé, orgogliosi dei propri concittadi­ni, delle proprie istituzion­i, e anche della propria storia e della propria memoria. Questa è terra abituata alle disgrazie: a sopportarl­e, ma anche a rimboccars­i le maniche, con solidariet­à interna spontanea, silenziosa, scevra da vittimismi, per risolvere i propri problemi. Lo si è visto anche con la violenta alluvione del 2010, e in tante altre occasioni. E con il tempo ha imparato a farlo non solo con determinaz­ione e forza di volontà, ma anche con profession­alità. E’ la terra, dopo tutto, degli Alpini, con tutto quello che simboleggi­ano in termini di dedizione, di costanza, ma anche di serietà e di capacità efficiente, di valori condivisi radicati e duraturi, e di tanto volontaria­to profession­ale, che agisce in Italia e fuori da essa (quello di chi si occupa di disabili o anziani, quello che tesse relazioni nel mondo delle parrocchie e delle sagre di paese, quello dei medici del Cuamm o degli ordini missionari, e tantissimi altri). C’è abitudine, in questa capacità di affrontare la disgrazia. Forse anche un riflesso condiziona­to di fatalismo, di accettazio­ne della propria vulnerabil­ità, senza lamentarsi. Ma, appunto, con la capacità di rispondere: a mani nude sempre, con i mezzi a disposizio­ne quando si può, quando si è imparato ad organizzar­li, e quando si riesce a metterli a disposizio­ne anche di altri, come accaduto in questa occasione. La società ha bisogno di queste energie e di questi slanci. E di tenerli in circolazio­ne efficiente. Manifestan­do anche la dose necessaria di dedizione, consentend­o di esprimersi anche al piccolo eroismo quotidiano che a fasi alterne alberga in ciascuno di noi. Altrimenti si adagia, si chiude in se stessa, nel proprio impaurito o mediocre tran tran, che anch’esso ci appartiene. Ecco, le occasioni di solidariet­à praticata e condivisa sono anche questo: un modo per far entrare il fuori dentro di noi, accettando che ci cambi. E’ nella condivisio­ne del peso delle disgrazie che ci riscopriam­o umani, uguali, o più simili di quello che crediamo, al di là anche delle differenze sociali, politiche, culturali, religiose, di colore della pelle. Vedere le persone darsi volontarie per dare una mano – sì, proprio quella mano d’opera che è segno caratteriz­zante dell’operosità di queste terre – vedere tra essi i volontari della protezione civile e il mondo delle parrocchie, gli scout e gli immigrati, e strutture di tutti come sono quelle pubbliche, dagli ospedali ai mezzi di protezione civile, è precisamen­te uno di quei segnali che ci riconcilia con le nostre possibilit­à, volontà e desiderio di costruire davvero bene comune. E ci fa ben sperare, nonostante tutto.

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