Da Salgari a Svevo, l’arte dello pseudonimo
Dopo il reportage su Elena Ferrante, le identità nascoste degli scrittori a Nordest. Quando l’autore prevale sull’opera
Chi è Elena Ferrante? È Anita Raja, la traduttrice napoletana «moglie di Starnone», secondo il becero costume italico per cui le donne sono funzioni familiari? La letteratura è piena di pseudonimi, eteronimi, falsi nomi. Da sempre. Carlo Goldoni, per dire, si firmò Polisseno Fegejo (non un gran nome) per il libretto d’opera de La
buona figliola. Meneghello firmava le sue recensioni come Ugo Varnai (già meglio). Molto spesso, è un divertissement. Qualche volta, ci si vergogna di quello che si scrive, e si affida a uno pseudonimo la produzione minore. Lo fece anche Agatha Christie, Mary Westmacott per i suoi sei romanzi rosa. O ci si prova a sfidare, come fece la Rowling prima che la scoprissero come Robert Galbraith, facendo impennare le vendite de
Il richiamo del cuculo iniziate in timidezza.
Qualche volta è perché scrivere è già, perlomeno, raddoppiarsi, e si finisce di credere di essere più persone. Come Marie-Henry Beyle, che pubblicò opere anonime e altre con ventitré diversi noms de plume, tra cui Stendhal. Qualche volta, è solo un vezzo, perché il proprio nome non piace, o non va bene. Ad Alberto Moravia non garbava il cognome paterno, ebreo e veneziano, Pincherle. Ettore Schmitz a Trieste trovò pace alla sua identità multipla nel transfrontaliero Italo Svevo. Ma qualche volta uno vuole anche nascondersi. O deve farlo. Emilio Salgari pubblicò sotto pseudonimo per tentare di aggirare i contratti con Donath e poi con Bemporad. Non gli servì a molto, visto che, come noto, furono anche quei contratti capestro, che arricchivano solo l’editore, a portarlo al suicidio.
Di Paolo Barbaro Marsilio sta per pubblicare Le due stagioni.
Paolo Barbaro è lo pseudonimo di Ennio Gallo, ingegnere di un’importante società elettrica, negli anni Sessanta; a quel tempo, non era cosa buona pubblicare libri, si sa che sono una perdita di tempo, sia mai che li scrive in ufficio, e poi per Einaudi, una casa editrice comunista. Paolo Barbaro non ha mai cambiato quel nome, che, in fondo, gli sopravvive. Perché la vera letteratura è più forte del nome. I romanzi non dipendono dagli autori. I romanzi sublimano esistenze spesso storte, noiose, agghiaccianti. Il vero autore è sempre pseudonimo, la vera letteratura è sempre pseudovita. Ma oggi non è più così. Oggi il nome, il personaggio, prevale sul libro. Forse vale anche per Elena Ferrante. In due sensi opposti. Perché questa autrice attiva sin dal 1992 (senza che nessuno se la filasse fino al recente successo) è da sempre la campionessa della voglia di scomparire dietro ai libri, di lasciare che se ne vadano da soli, che parlino da soli. E perché, per paradosso, Elena Ferrante vende anche perché non si sa chi è davvero. È un gioco, astuto, consapevole, divertente. E dunque non è da meravigliarsi che un giornalista come Claudio Gatti si sia messo alla caccia dell’identità segreta per Il Sole 24 Ore. In fondo, un autore, se pubblica, si espone al giudizio, all’interesse. Specie se, come Elena Ferrante, ha di recente intensificato una sua presenza comunque pubblica, rilasciando interviste e, come ha notato Tiziano Scarpa su ilprimoamore.com, persino sottoscrivendo sacrosanti appelli alla libertà d’espressione in Turchia.
Il problema, per me, non è quello, né il disvelamento possibile, né la privacy. Piuttosto, è che non si capisce davvero perché, dentro a un gioco deliziosamente letterario, nel pezzo pubblicato nel Sole 24 Ore si parli di soldi, di visure catastali, case in campagna, passaggi di denaro tra moglie e marito, diritti d’autore. Ha qualcosa di contemporaneo, forse; viviamo in tempi pornografici, e quindi tutt’altro che letterari. Ma a me non piace. E non mi piace, adesso che ci penso, nemmeno che il più intenso dibattito del mondo letterario degli ultimi anni non abbia niente a che fare con i libri.