La «fondatrice» e le leghiste 2.0 vita nel partito celodurista Dal Lago non rinnova la tessera
Non dev’essere facile essere donna in un partito che l’8 marzo, insieme alla mimosa, ti regala uno spray «anti aggressioni» al peperoncino (non esattamente il massimo del romanticismo). Dove il vecchio leader, Umberto Bossi, ha fama d’essere un donnaiolo impenitente, rivendica dal palco, tra le risate dei colonnelli, di avercelo sempre duro e fa del machismo in canottiera uno dei cardini della sua comunicazione politica. Un partito dove pure il nuovo leader, Matteo Salvini, per colpire una donna (Laura Boldrini) la paragona ad una bambola gonfiabile e dove le due associazioni femminili, le Dp (Donne Padane, di cui fu vicepresidente la trevigiana Silvana Lorenzi Amorena) e il Gpf (il Gruppo politico femminile), sono state fondate da un uomo, Bossi ovviamente, che poi già che c’era ha creato pure Miss Padania.
Eppure le donne hanno avuto, non senza lottare, e continuano ad avere, pur tra mille difficoltà, ruoli di primo piano nel Carroccio, a livello amministrativo (soprattutto) e politico (un po’ meno), conciliando l’impegno in prima linea nelle roboanti battaglie lanciate da Salvini ora contro i migranti ora contro l’Unione Europea, con un pragmatismo silenzioso «da buona madre di famiglia» e una visione en rose fondata su due principi: «si fa quello che si deve fare» e «amministrare è il vero potere». Che poi dev’essere quel che hanno pensato le sindache di Oderzo e Musile quando, rispettose della legge, hanno «unito civilmente» due coppie gay facendo infuriare l’intera catena (maschile) di comando, da Salvini in giù. Ma guai a parlare di dolcezza e femminilità, a sdilinquirsi in toni da cioccolatini e soap opera. Le donne della Lega sono orgogliosamente contro le quote rosa, contro la doppia preferenza, per le pari opportunità strappate ai maschi con i denti insieme alle poltrone, talvolta pronte ad azzannare altre donne (cliccare Bars-Boldrini o Valandro-Kyenge per maggiori informazioni), meno Love Boat e più Signorina Rottermeier, per quanto poi sensibili al Sociale, alle politiche di genere (anche in chiave anti islamica), ai bambini, agli anziani, all’ambiente e agli animali.
In principio fu Marilena Marin, la moglie di Franco Rocchetta, tra gli organizzatori del congresso di Recoaro nel 1979, segretario della Liga Veneta dal 1984 al 1994, fondatrice della Lega Nord a Bergamo nel 1989, presidente federale del partito, europarlamentare nel 1994. Dopo di lei, ci sono state la first sciura Manuela Marrone, consigliera ascoltatissima da Bossi, sempre quattro passi indietro eppure potente al punto da poter decidere fortune e sfortune politiche con un sussurro all’orecchio del marito, quindi Irene Pivetti, a 31 anni la più giovane presidente della Camera della storia italiana, cacciata col marchio dell’infamia perché contraria alla secessione, e ancora Rosi Mauro, la fondatrice del Sinpa, il sindacato padano, eminenza grigia nel periodo più buio per la Lega e per Bossi (malignamente fu ribattezzata «la badante»), precipitata in modo rovinoso insieme al Capo dopo la notte delle scope. E con loro molte altre deputate, senatrici, eurodeputate, sottosegretarie (come la veronese Francesca Martini, alla Sanità, protagonista di memorabili campagne per gli animali), sindache e presidenti di Provincia ma su tutte, qui in Veneto, Manuela Dal Lago, presidente della Liga Veneta dal 2001 al 2008, presidente della Provincia di Vicenza e della Brescia-Padova, deputata e «triumvira» che con Maroni e Calderoli traghettò il partito nella tempesta. Che dopo vent’anni ha deciso di saltar giù dal Carroccio: «Non ne condivido la svolta impressa da Salvini, nazionalista e lepenista, così come non mi sono piaciuti gli insulti a Ciampi nel giorno della morte. Non mi riconosco più nella linea politica, voglio sentirmi libera e per farlo non posso più avere in tasca la tessera della Lega». Libera anche di dire che le sindache di Oderzo e Musile hanno fatto benissimo a fare ciò che hanno fatto e non soltanto «per il ruolo istituzionale che ricoprono, che impone loro di applicare la legge» ma anche perché «non hanno voluto chiudere gli occhi di fronte alla realtà che cambia, alle loro comunità in cui vivono e si amano anche persone dello stesso sesso».
La pensano così le (altre) donne della Lega? Non ce ne sono moltissime oggi nei posti che contano (2 deputate su 18, 2 senatrici su 12 - dopo la diaspora delle «tosiane» -, 3 consigliere regionali su 23, 1 consigliera nathional su 10, zero segretarie provinciali) e quelle con cui abbiamo parlato stanno tutte con Salvini. «Se fossi stata sindaco non li avrei sposati, avrei delegato un funzionario e la legge sarebbe stata ugualmente rispettata» dice l’assessore al Sociale Manuela Lanzarin, per 10 anni sindaco di Rosà. «Lo stesso vale per me - le fa eco la capogruppo in Regione Silvia Rizzotto, per 10 anni sindaco di Altivole - ciascuna di noi è portatrice della propria sensibilità, ma poi c’è la linea politica che tiene insieme il partito». La senatrice Erika Stefani ricorda le battaglie condotte in parlamento contro la legge Cirinnà, «battaglie che non è giusto vanificare così» mentre la vice segretaria nathional Giorgia Andreuzza sospira: «Non voglio accanirmi contro le nostre sindache ma avrebbero dovuto gestire la situazione in modo più diplomatico, coniugando convinzioni personali e linea di partito: tra lo scendere in piazza facendo le pasdaran anti-gay e il celebrare un matrimonio gay ci sono mille sfumature. Se avessero delegato un funzionario non si sarebbero cacciate in questo brutto guaio».