LA BELLA IMPRESA DI GOLDIN
Un serpente di uomini e donne, in fila ordinati, con libri e cartine toponomastiche in mano perché Google Maps e app dedicate per città smart erano ancora a venire, ancora nella testa dei programmatori del Nuovo Impero Mondiale: il web. Un serpente umano conficcato nello struscio modaiolo ma rarefatto del sabato pomeriggio di una Treviso sempiternamente conosciuta per Signore e Signori e il radicchio tardivo, il suo bel giro d’acque che nel Sile confluisce e s’accompagna, i cicchetti delle osterie e, nascosti ai più, cicli d’opere e chiese medievali per qualche raro intenditore. Struscio autarchico con altrettanto sempiterno e asfittico dibattito sul come «far rivivere turisticamente» la Piccola Atene (così è arditamente chiamata Treviso); che poi era (e resta) il cruccio di tante Treviso che sono le cento e più città della Repubblica della Bellezza di un’Italia straordinaria e lazzarona, tesoro e dannazione, lamento e conservatorismo, intrapresa e burocrazia, vai avanti tu che mi vien da ridere, tanto bla bla e pochi guizzi d’ingegno di politici e amministratori.
C’erano perfino ragazzi, in quel serpente. Che arrivava in piazza dei Signori dopo aver compiuto rettilinei e curve a gomito, infrazioni in contromano e divieti di sosta spalmandosi come un blob che riempiva ogni spazio perché alla testa premeva contro un imbuto dove la gente faticava ad entrare.
Non era la porta di uno stadio, non quella di una discoteca, nemmeno il casting per il sequel di una commedia all’italiana a caccia di un nuovo Gastone Moschin o di una Virna Lisi capace di far impazzire d’amore e prurigine orde di mariti potenzialmente fedifraghi. Era, quell’imbuto, la porta di una mostra d’arte. Centinaia, migliaia di persone per vedere una mostra. A Treviso. Negli anni novanta. D’inverno. Battendo i denti. Al punto che in quelle code che per un’intera stagione si ripeterono ogni weekend che Dio mandava in terra, alla gente infreddolita i ristoratori portarono pasta fagioli e vin brûlé, conforto enogastronomico in attesa di quello dello spirito.
Si parlò di eresia. Gli impressionisti e la pasta e fagioli. L’arte e il marketing condiviso. Van Gogh e l’empatia di un progetto che non se la tira. Ma era soprattutto una l’eresia: quella mostra, una delle grandi mostre che i veneti e gli italiani si sarebbero abituati a vedere, era stata ideata e realizzata da un privato. Un giovane storico dell’arte diventato imprenditore. Certo, aiutato da sponsor fra i quali uno «pesante» come Fondazione Cassamarca. Ma un privato. Niente Stato, niente Regione, niente Provincia, niente Comune.
L’eresia aveva un nome ed è quello di Marco Goldin. Un’eresia che ha vent’anni. I vent’anni di Linea d’ombra, società dagli echi conradiani per via di quel capitano trentacinquenne (la stessa età di Goldin nel 1996) che riprese il mare per abbandonare le regioni della prima giovinezza ma soprattutto le linee d’ombra sui campi di grano o sul mare di Guccione, il pittore che forse lui ama di più. Vent’anni di Linea d’Ombra a Treviso e oltre Treviso e cioè Torino, Brescia, Genova, Verona, Vicenza, Bologna. E ancora, quest’anno, il ritorno a casa a Treviso fortemente voluto dal sindaco Giovanni Manildo, con la mostra-monstre nel gioiello che è diventato il Museo di Santa Caterina e che si inaugura oggi, dedicata alle «Storie dell’impressionismo. I grandi protagonisti da Monet a Renoir, da Van Gogh a Gauguin». Vent’anni fatti di diecimila capolavori esposti, dieci milioni di visitatori, decine di milioni di euro di valore aggiunto alle economie esauste di città in default costrette a tagliare servizi e a riempire di multe i cittadini per riempire le casse comunali.
E oggi come fece allora - dopo vent’anni di risultati che a quell’eresia danno ragione - chi scrive continua a dire ciò che pensò in quel 1996 contro i critici nicchianti e i curatori invidiosi delle mostre di Stato. Certo belle e impor- tanti (non tutte) ma organizzate con il paracadute dei fondi pubblici. O contro chi in quegli anni, ovvero la giunta leghista di Treviso, per arginare il «fenomeno Goldin» e lo sponsor Cassamarca – feudo di Dino De Poli – si mise in testa di organizzare un’esposizione concorrente affidandone la cura a un professore di matematica. La Lega spese un pozzo di soldi per esporre sei disegni (giapponesi) attribuiti a Van Gogh copiando il format goldiniano (scolaresche, comunicazione, forse anche la pasta e fagioli) e andò a finire che dopo qualche giorno cotanta mostra venne sequestrata dalla Guardia di Finanza perché puzzava di falso.
Marco Goldin è stato e resta un visionario, un intellettuale e imprenditore del Nordest che con ciò che il Nordest dei produttori ha sempre snobbato – cioè la cultura – ha osato declinare il sostantivo profitto. Che da queste parti suona meglio dicendo «schei». La cultura che assieme alla spiritualità produce Pil, che fa quadrare i conti, che impatta sull’economia del territorio e lo arricchisce. In tutti i sensi.
Uno scandalo? No, un miracolo. Con la coda alla porta. Diversi Comuni con le mostre di Goldin (ma anche di altri privati organizzatori di mostre d’arte venuti dopo con alterne fortune) hanno sì speso ma fatto cambiare volto e reputazione alle loro città. Facendole diventare per davvero città d’arte e non solo annunci velleitari su una toponomastica d’ingresso ai centri abitati che fa ridere i polli.
Personaggio anche divisivo, Goldin. Qualcuno lo ha accusato di proporre mostre «facili», qualcuno dice anche «azzardate» per i temi proposti. Eppure nella bellezza e nei segreti dell’arte non c’è mai nulla di «facile». E’ «facile» un impressionista per chi non ha mai visto dal vivo un quadro di Van Gogh? O è un’esperienza meravigliosa? E per contro è «facile» l’approccio con gli autori delle tante e tante mostre di Linea d’ombra che ci hanno fatto conoscere, vedere o rivedere Guccione, Morandi, Schifano, Pizzinato, Music, Mondrian, Munch, Guttuso, Vedova o Antonio Lopez Garcia oltre ad altri («facili»?) come Raffaello, Monet, Cézanne, Renoir od Hopper?
Contro certo spocchioso accademismo, vent’anni fa è nata un’altra forma democratica di accesso all’arte perché offerta in modo diretto, più accattivante, scientifica ma sfidante, con una capacità comunicativa inconsueta. Non pop nel senso sminuente che alle cose pop solitamente si dà. Se io faccio venire la voglia di vedere Monet o «La ragazza con l’orecchino di perla» di Vermeer a un ragazzo, forse gli racconto una storia diversa dalle ragazze che conosce e che magari si sfondano con sette bombe alcoliche in un «apericena».
Insomma Marco Goldin ha trovato la cifra (non solo quella economica) per comunicare l’arte e una voglia d’arte che prima non c’era. Benemerita l’attività del pubblico senza il quale non conosceremmo i patrimoni del Paese più ricco di bellezza al mondo. Ma straordinariamente unica l’avventura di quel «ragazzo» che a trentacinque anni, abbandonando le regioni della prima giovinezza, lungo la sua vertiginosa Linea d’ombra è diventato imprenditore con la materia più straordinaria e difficile da plasmare, far scoprire, fruttare e diffondere: l’arte.
Il visionario L’«eresia» ventennale dell’intellettuale imprenditore del Nordest e della sua «Linea d’ombra»