Ecco «Ritratto d’uomo» L’avventurosa storia della scultura di Martini
Non ha percorso tanta strada per arrivare nella sede che ora la ospita, la splendida opera di Arturo Martini, intitolata Ritratto d’uomo, accolta e celebrata ieri da una conferenza del professor Nico Stringa, studioso autorevole delle opere martiniane. Era rimasta per un centinaio d’anni dimenticata su un’alto ripiano di una autorimessa cittadina, proprietà consapevole ma poco accudita di una famiglia trevigiana.
Ora è stata acquistata dal Museo Bailo per entrare a far parte della più ricca collezione pubblica di opere – tra sculture, ceramiche, incisioni e disegni - dello scultore, morto proprio il 22 marzo del 1947.
L’opera, un gesso del 1910, portava evidenti segni di degrado superficiale, a causa di uno spesso strato di sporco depositatosi sulla patina bianca del manufatto; grazie all’attento restauro di Pino Dinetto, finanziato dall’associazione Amici dei Musei di Treviso, la «pelle» martiniana è tornata a rilucere. L’opera ritrovata, che ora si può ammirare proprio accanto alla scultura «gemella» – per dimensioni, periodo e stile – denominata L’ubriaco, fu creata da Martini, quando, al ritorno da Monaco, dove aveva conosciuto l’arte della secessione, riversa entusiasmo e esperienza dell’arte nuova in opere dal forte effetto espressionista. Sono quelli gli anni del sodalizio artistico e esistenziale con Gino Rossi che con la sua pittura innovativa, radicale per struttura compositiva dal formidabile effetto plastico, influirà sensibilmente sulla poetica martiniana, influenza ricusata in seguito da Martini. La coppia di teste esposte al Bailo, coeve, sono infatti da accreditarsi alla suggestione esercitata su Martini dalla mostra organizzata da Barbantini a Ca’ Pesaro, dove erano esposti capolavori di Gino Rossi quali La fanciulla con il fiore e Il muto. Rossi e Martini, legati anche dall’anno della morte, il 1947, sono ricordati da Giovanni Comisso nel romanzo I due compagni del 1936 – ora ripubblicato da Santi Quaranta editore: due destini
artistici paralleli, due uomini «contro», segnati dalla ribellione al classicismo, dalla insofferenza al gusto comune, da una vaga vena anarchica.
La vita destinerà a Rossi una sorte terribile: vent’anni di degenza manicomiale e di abbandono e il silenzio, anzi il mutismo artistico. Per Martini invece il successo arriverà con il fascismo: molte commesse pubbliche per la sua arte che aveva elaborato uno stile personalissimo, illuminato dalla riscoperta della statuaria etrusca, improntato alla costante ricerca formale – per citare parole dello scultore oggi ritenuto tra i più geniali del Novecento – «di raggiungere l’equilibrio attraverso lo squilibrio».