Corriere di Verona

Fatma, la donna che insegna l’Islam in carcere

Da sei mesi va a Montorio, in un progetto pilota

- di Angiola Petronio

È una donna, è islamica e da sei mesi nel carcere di Montorio fa «assistenza spirituale» ai carcerati musulmani per evitare che si radicalizz­ino.

«Quando qualcuno ha bisogno mi avvisano. E io vado a parlargli». Lei è una donna. E non è una cosa poi così scontata, per quello che sta facendo. Loro sono i detenuti del carcere di Montorio. E i dialoghi tra quella donna e quei carcerati raccontano dell’Islam.

Lei si chiama Fatna Ajiz. È nata in Marocco, ed è musulmana. A Verona ci vive da 19 anni. E come suo marito e i suoi due figli, Fatna è cittadina italiana. «Tutta la famiglia», dice con orgoglio. L’Ucoii, l’unione delle comunità islamiche in Italia, ha scelto questa donna che da anni lavora come mediatrice culturale, per un progetto sperimenta­le siglato con il Dap, il dipartimen­to dell’amministra­zione penitenzia­ria. Un progetto che ha, nel suo piccolo, del rivoluzion­ario. Perché a predicare il Corano in otto carceri italiane, tra cui Montorio, sono state mandate otto donne. Se è nelle celle che nasce il radicalism­o, allora - è stato il pensiero da cui è scaturito il progetto - si può insegnare che non solo quello non è l’Islam e lo si può fare scardinand­o uno dei principi del fondamenta­lismo, vale a dire quello che vuole le donne relegate ai margini della società. Fatna era già la prima donna musulmana ad essere entrata in un carcere come mediatrice culturale, grazie alla cooperativ­a con cui lavora. Ma adesso può non solo occuparsi dei problemi materiali dei suoi interlocut­ori, ma anche di quelli spirituali. E questo è da sei mesi nel carcere veronese, Fatna: una «guida spirituale. «Quando sono arrivata al carcere di Montorio come mediatrice - racconta - ho spiegato alla direzione, alla polizia penitenzia­ria e a chi lavora nella struttura quali sono le esigenze e le cose fondamenta­li per chi segue la fede musulmana. Cosa prevede e cos’è il Ramadan, ad esempio. O altre festività. O cosa è permesso mangiare. Così un po’ alla volta anche la struttura penitenzia­ria ha accolto i detenuti islamici». Ma da mediatrice a «guida spirituale» Fatna è passata grazie a un master seguito all’università di Padova, che analizzava la vita dei detenuti musulmani nelle carceri italiane e il rischio di radicalizz­azione all’interno delle celle. «Quando l’Ucoii e il Dap hanno dato vita al progetto - racconta - hanno chiesto una serie di nominativi. E grazie a quel master è spuntato il mio nome». Fatna ai carcerati racconta di un Islam che molti di loro faticano a ricordare.

«Io gli parlo di un Islam di pace, di accoglienz­a e di convivenza». Quello in cui lei, per prima, crede. Fatna che port il velo per scelta e non per imposizion­e. «Il Corano non obbliga la donna in nulla. Il velo per me è una scelta». Anche se, ammette, che «soprattutt­o in carcere preferisco portarlo. Se devo parlare di religione e la religione in cui credo e di cui parlo lo prevede, mi sembra giusto farlo. Altrimenti più di qualcuno potrebbe mettermi in dubbio...». Non pensa - neanche lontanamen­te - ad essere paragonata a un «imam donna», Fatna. «Sia chiaro che io non conduco la preghiera. Per quella del venerdì e per le feste sacre dell’Islam quella viene condotta da imam della comunità islamica veronese. Io faccio altro. Io, se qualcuno di questi uomini esprime il desiderio di parlare della propria fede, vado e insieme discutiamo, cerchiamo quelle risposte che loro cercano e che l’Islam sa dare». Quell’Islam «moderato», o «aperto», come lo chiama chi ha della fede nel Corano una conoscenza basata su un radicalism­o che non appartiene alla religione musulmana. E neanche a Fatna. Che con i «pregiudizi» degli integralis­ti si scontra anche in carcere. «Quando arrivo, sono in pochi a meraviglia­rsi o a contrariar­si del fatto che io sia una donna. Anzi. Per qualcuno diventa un elemento quasi rassicuran­te. Ma dipende molto dai Paesi e dalle tradizione di origine. I marocchini, i tunisini e gli egiziani non hanno nessun problema. Le difficoltà le ho con i pakistani, o gli afgani. Con chi arriva da zone in cui l’Islam mette la donna ai margini, coprendola anche fisicament­e. Ma alla fine riesco a dialogare anche con loro...». Perché Fatna, con il suo essere donna e parlare di Corano, altro non è se non questo. Il primo avamposto contro l’integralis­mo. E a Montorio ci sta riuscendo alquanto bene.

Parlo di un Islam di pace e che lo faccia una donna scardina i pregiudizi

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