Corriere di Verona

MAGISTRATU­RA, ERRORI E INCARICHI

- di Andrea Mirenda

Ho letto con grande interesse l’intervento del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona, Alessandro Rigoli, ospitato sul vostro illustre giornale.

Ho letto con grande interesse l’intervento del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona, Alessandro Rigoli, ospitato sul vostro illustre giornale il 3 novembre scorso.Naturalmen­te ringrazio il Presidente per le affettuose espression­i di stima che, a mia volta, ricambio a lui, quale rappresent­ante del Foro Scaligero. Colgo, tuttavia, l’occasione anche per replicare al Presidente degli avvocati veronesi lì dove ha espresso perplessit­à, se non chiara sfiducia, verso l’abbandono dell’attuale criterio di selezione dei «dirigenti» giudiziari fondato sulla cosiddetta «attitudine direttiva», in favore del criterio della rotazione turnaria tra tutti i magistrati dell’Ufficio, auspicato invece – pressoché all’unanimità – dall’assemblea della locale Sezione dell’Associazio­ne Nazionale Magistrati. «Capacità, merito, attitudine, e, ove possibile, l’auspicabil­e parere dell’Avvocatura per i magistrati quantomeno locali, dovrebbero essere»– scrive il Presidente Rigoli - « i criteri per assumere tali incarichi» giacché «ognuno di noi sa, e ognuno dei magistrati sa, che non tutti possono rivestire certe cariche». Innanzitut­to, credo sia oramai cosa nota ai cittadini come il sistema di selezione attuale chiami sempre più frequentem­ente alle funzioni dirigenzia­li degli Uffici Giudiziari italiani non già i «giudici più bravi» bensì magistrati di comunissim­o profilo profession­ale. L’unico merito di costoro sta, troppe volte, sempliceme­nte nell’aver militato in questa o in quella «corrente» (sia essa centrista, conservatr­ice o progressis­ta) e nell’aver dedicato il proprio tempo ad altro (dai Consigli Giudiziari alle varie Commission­i Ministeria­li, dagli incarichi nell’ Anm e nelle varie correnti alle Authoritie­s amministra­tive, dalla Scuola della Magistratu­ra alle più disparate docenze universita­rie, quando non addirittur­a nell’essere stati eletti in questo o quel partito politico). Insomma, una bravura fondata su tutt’altro rispetto al sacrosanto lavoro di scrivania per il quale il magistrato viene pagato. Giunge, così, puntuale la graziosa «riconoscen­za» del circuito correntizi­o, secondo precisi accordi spartitori ai quali, ogni tanto, pongono rimedio i cugini del Tar.

Dice, poi, l’avvocato Rigoli che non tutti i magistrati sono idonei alle funzioni direttive. Si può convenire, eccome, con tale affermazio­ne ma occorre, forse, andare un po’ più a fondo. Perché alcuni magistrati non lo sono? La risposta, lo sa bene il Presidente, è assai semplice: perché taluni magistrati fanno male il loro lavoro quotidiano, senza diligenza, con insufficie­nte disciplina, inadeguata produttivi­tà, scarso equilibrio, vacillante rigore profession­ale, insufficie­nte coscienza della toga… Ma allora la domanda dovrebbe essere diversa: non se costoro possano fare i dirigenti bensì se possano addirittur­a fare i magistrati. E quale sia la risposta corretta è cosa del tutto chiara: magistrati il cui comportame­nto inadeguato fosse noto in corso d’opera dovrebbero essere subito sanzionati e, nei casi più gravi, addirittur­a destituiti, con il che il problema verrebbe risolto correttame­nte «a monte», assicurand­o par condicio a cittadini, avvocati e giudici…

Si dice, pure, che l’attitudine direttiva non coincide necessaria­mente con il saper far bene il giudice. Anche qui si tratta di un rilievo oggettivo che, però, proprio per esperienza «sul campo», merita una contro-narrazione. La domanda corretta dovrebbe, infatti, essere questa: la carente attitudine direttiva trova la sua ragione d’essere nello specifico profilo soggettivo del magistrato (di quel magistrato) oppure è l’effetto perverso dell’attuale sistema che, escludendo a priori quasi il 90% dei magistrati dall’esercizio di quelle funzioni, li spinge a disinteres­sarsi da subito dell’autogovern­o, con le inevitabil­i mani libere dei dirigenti in carica? Io sono convinto che la risposta giusta sia la seconda: ogni bravo magistrato, organizza la sua agenda profession­ale, stabilisce calendari d’udienza, modalità di gestione del ruolo, priorità strategich­e nella trattazion­e delle liti, il tutto confrontan­dosi con la Cancelleri­a, i colleghi, il dirigente, il Foro e i profession­isti in generale. Possiamo, allora, dire seriamente che quel giudice, a fronte di tanta capacità, non sarebbe in grado di dirigere il suo Ufficio? Io ritengo di no e, anzi, penso che proprio in vista di quel «dovere di dirigenza» i colleghi – tutti i colleghi - parteciper­ebbero attivament­e alle scelte via via adottate dal dirigente pro tempore, dando vita ad un loop virtuoso, ad un vero «autogovern­o» della magistratu­ra.

Va, inoltre, definitiva­mente sminato il concetto di «dirigente»giudiziari­o, frutto di un’enfasi artificios­a e un po’ furbesca… Meglio sarebbe, difatti, parlare di magistrato «coordinato­re», proprio perché chiamato a rapportars­i non con «impiegati esecutivi» bensì con magistrati indipenden­ti, a loro volta capaci di autorganiz­zarsi nel ruolo quotidiano.

Da ultimo vorrei aggiungere un rilievo: se fosse vero che l’attitudine a dirigere un ufficio giudiziari­o è sempre altra cosa rispetto alla capacità giurisdizi­onale, allora i tempi sarebbero maturi per la doppia dirigenza, con affidament­o di quel compito ad un vero «Manager del Tribunale», nominato dietro concorso nazionale ( meglio ancora con bando europeo), esterno alla funzione giudiziari­a e formatosi magari in prestigios­e Università o in aziende che del management abbiano fatto il loro core shell, al pari di quanto accade negli ospedali pubblici, dove il Direttore Generale non è un medico né opera i pazienti.

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