MAGISTRATURA, ERRORI E INCARICHI
Ho letto con grande interesse l’intervento del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona, Alessandro Rigoli, ospitato sul vostro illustre giornale.
Ho letto con grande interesse l’intervento del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona, Alessandro Rigoli, ospitato sul vostro illustre giornale il 3 novembre scorso.Naturalmente ringrazio il Presidente per le affettuose espressioni di stima che, a mia volta, ricambio a lui, quale rappresentante del Foro Scaligero. Colgo, tuttavia, l’occasione anche per replicare al Presidente degli avvocati veronesi lì dove ha espresso perplessità, se non chiara sfiducia, verso l’abbandono dell’attuale criterio di selezione dei «dirigenti» giudiziari fondato sulla cosiddetta «attitudine direttiva», in favore del criterio della rotazione turnaria tra tutti i magistrati dell’Ufficio, auspicato invece – pressoché all’unanimità – dall’assemblea della locale Sezione dell’Associazione Nazionale Magistrati. «Capacità, merito, attitudine, e, ove possibile, l’auspicabile parere dell’Avvocatura per i magistrati quantomeno locali, dovrebbero essere»– scrive il Presidente Rigoli - « i criteri per assumere tali incarichi» giacché «ognuno di noi sa, e ognuno dei magistrati sa, che non tutti possono rivestire certe cariche». Innanzitutto, credo sia oramai cosa nota ai cittadini come il sistema di selezione attuale chiami sempre più frequentemente alle funzioni dirigenziali degli Uffici Giudiziari italiani non già i «giudici più bravi» bensì magistrati di comunissimo profilo professionale. L’unico merito di costoro sta, troppe volte, semplicemente nell’aver militato in questa o in quella «corrente» (sia essa centrista, conservatrice o progressista) e nell’aver dedicato il proprio tempo ad altro (dai Consigli Giudiziari alle varie Commissioni Ministeriali, dagli incarichi nell’ Anm e nelle varie correnti alle Authorities amministrative, dalla Scuola della Magistratura alle più disparate docenze universitarie, quando non addirittura nell’essere stati eletti in questo o quel partito politico). Insomma, una bravura fondata su tutt’altro rispetto al sacrosanto lavoro di scrivania per il quale il magistrato viene pagato. Giunge, così, puntuale la graziosa «riconoscenza» del circuito correntizio, secondo precisi accordi spartitori ai quali, ogni tanto, pongono rimedio i cugini del Tar.
Dice, poi, l’avvocato Rigoli che non tutti i magistrati sono idonei alle funzioni direttive. Si può convenire, eccome, con tale affermazione ma occorre, forse, andare un po’ più a fondo. Perché alcuni magistrati non lo sono? La risposta, lo sa bene il Presidente, è assai semplice: perché taluni magistrati fanno male il loro lavoro quotidiano, senza diligenza, con insufficiente disciplina, inadeguata produttività, scarso equilibrio, vacillante rigore professionale, insufficiente coscienza della toga… Ma allora la domanda dovrebbe essere diversa: non se costoro possano fare i dirigenti bensì se possano addirittura fare i magistrati. E quale sia la risposta corretta è cosa del tutto chiara: magistrati il cui comportamento inadeguato fosse noto in corso d’opera dovrebbero essere subito sanzionati e, nei casi più gravi, addirittura destituiti, con il che il problema verrebbe risolto correttamente «a monte», assicurando par condicio a cittadini, avvocati e giudici…
Si dice, pure, che l’attitudine direttiva non coincide necessariamente con il saper far bene il giudice. Anche qui si tratta di un rilievo oggettivo che, però, proprio per esperienza «sul campo», merita una contro-narrazione. La domanda corretta dovrebbe, infatti, essere questa: la carente attitudine direttiva trova la sua ragione d’essere nello specifico profilo soggettivo del magistrato (di quel magistrato) oppure è l’effetto perverso dell’attuale sistema che, escludendo a priori quasi il 90% dei magistrati dall’esercizio di quelle funzioni, li spinge a disinteressarsi da subito dell’autogoverno, con le inevitabili mani libere dei dirigenti in carica? Io sono convinto che la risposta giusta sia la seconda: ogni bravo magistrato, organizza la sua agenda professionale, stabilisce calendari d’udienza, modalità di gestione del ruolo, priorità strategiche nella trattazione delle liti, il tutto confrontandosi con la Cancelleria, i colleghi, il dirigente, il Foro e i professionisti in generale. Possiamo, allora, dire seriamente che quel giudice, a fronte di tanta capacità, non sarebbe in grado di dirigere il suo Ufficio? Io ritengo di no e, anzi, penso che proprio in vista di quel «dovere di dirigenza» i colleghi – tutti i colleghi - parteciperebbero attivamente alle scelte via via adottate dal dirigente pro tempore, dando vita ad un loop virtuoso, ad un vero «autogoverno» della magistratura.
Va, inoltre, definitivamente sminato il concetto di «dirigente»giudiziario, frutto di un’enfasi artificiosa e un po’ furbesca… Meglio sarebbe, difatti, parlare di magistrato «coordinatore», proprio perché chiamato a rapportarsi non con «impiegati esecutivi» bensì con magistrati indipendenti, a loro volta capaci di autorganizzarsi nel ruolo quotidiano.
Da ultimo vorrei aggiungere un rilievo: se fosse vero che l’attitudine a dirigere un ufficio giudiziario è sempre altra cosa rispetto alla capacità giurisdizionale, allora i tempi sarebbero maturi per la doppia dirigenza, con affidamento di quel compito ad un vero «Manager del Tribunale», nominato dietro concorso nazionale ( meglio ancora con bando europeo), esterno alla funzione giudiziaria e formatosi magari in prestigiose Università o in aziende che del management abbiano fatto il loro core shell, al pari di quanto accade negli ospedali pubblici, dove il Direttore Generale non è un medico né opera i pazienti.