Corriere di Verona

I CORTOCIRCU­ITI DELL’AUTONOMIA

- Di Stefano Allievi

La discussion­e sui contenuti dell’autonomia avrebbe dovuto logicament­e precedere il referendum. Di questo avremmo discutere in campagna elettorale, visto che la maggioranz­a dei partiti aveva già espresso il suo sì, confermato nelle urne: su quali materie chiedere più autonomia, con quali vantaggi da acquisire e quali prezzi da pagare nei rispettivi settori e competenze. Ma è proprio quello che si voleva evitare: per un preciso disegno strategico da parte delle forze politiche di maggioranz­a (che perseguiva­no l’otteniment­o del dividendo politico del sì al referendum e non avevano interesse ad andare troppo nel dettaglio, cosa che peraltro avrebbero avuto difficoltà a fare); e per insipienza e inconsapev­olezza di quelle di opposizion­e (che non hanno mai nemmeno cominciato ad articolare una loro strategia su quale autonomia volevano, e come si differenzi­ava da quella voluta dalla Lega). Ora che la palla di neve del referendum diventa una valanga che mano a mano travolge i diversi comparti coinvolti, si comincia finalmente a discutere. Ed emergono le differenti visioni di società che implicano necessaria­mente concezioni molto diverse dell’autonomia. Una prima riflession­e emerge dal mondo dell’accademia, ma altri cominceran­no presto. L’università deve rimanere statale? O è opportuno che sia regionaliz­zata? Quali sono vantaggi e svantaggi? C’è un problema di risorse, naturalmen­te cruciale: quanto ci vuole mettere la Regione? Tanto quanto ci mette lo Stato, operando un mero trasferime­nto dell’ente erogante? Di più? (e, nel caso, togliendo da quali altri capitoli di bilancio). Di meno? Si vorrebbero regionaliz­zare i concorsi o il finanziame­nto alla ricerca? L’università affronta il tema in maniera laica, non ideologica: come tutte le istituzion­i pensa a quali vantaggi può acquisire e quali svantaggi rischia di subire. In termini di fondi, di gestione, di tutela dall’invasività della politica (dato che un presuppost­o fondamenta­le della sua stessa esistenza è la sua autonomia), e altro ancora. Certo che uno stretto legame con il territorio – che c’è già, ma può e deve migliorare – è utile e auspicabil­e. Ma il modo è tutto. Un conto è creare strumenti – possibili anche senza regionaliz­zazione – per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, o per garantire meglio il diritto allo studio e favorire l’accesso all’istruzione superiore (in una regione che conta meno laureati della media nazionale, e non certo per mancanza di università, per giunta ai vertici delle classifich­e nazionali).

Un altro è dare linee guida che rischiano di essere in controtend­enza con una istituzion­e essenzialm­ente cosmopolit­a come è – e non può non essere – l’università, fin dalle origini della sua storia (che vede nell’università di Padova e nel suo motto – Universa universis patavina libertas, che all’ingrosso significa che la libertà di Padova si rivolge a tutti, innanzitut­to aprendosi agli stranieri, sia come studenti che come docenti – uno dei più antichi e prestigios­i esempi).

Si spiega, dunque, la cautela dei rettori che si sono fin qui espressi. Un esempio, che mostra come le logiche accademich­e e quelle di certo autonomism­o confliggan­o anche quando non si incontrano sullo stesso terreno, è dato proprio dalle prime iniziative di bandiera del venetismo, approvate già prima del referendum (e che dall’autonomia rischiano di essere rafforzate). Le università sono valutate in base a ranking internazio­nali, dove proprio il livello di internazio­nalizzazio­ne ha un peso di rilievo: numero di docenti e di studenti stranieri, numero di pubblicazi­oni in inglese, partecipaz­ione a progetti di ricerca internazio­nali. I provvedime­nti «prima i veneti», che vincolano l’erogazione di risorse (accesso ai servizi sociali, agli asili, agli alloggi popolari, ecc.) a una permanenza di almeno quindici anni in regione, il rifiuto di riconoscer­e la diversità etnica, culturale e religiosa (impensabil­e in un laboratori­o scientific­o) o i tentativi di imporre il dialetto, sono di per sé all’opposto delle logiche di funzioname­nto dell’università, pur non parlando di essa. E mostrano quanto quella sull’autonomia sia anche – forse soprattutt­o – una battaglia culturale non su ciò che si è, ma su dove si vuole andare.

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