I CORTOCIRCUITI DELL’AUTONOMIA
La discussione sui contenuti dell’autonomia avrebbe dovuto logicamente precedere il referendum. Di questo avremmo discutere in campagna elettorale, visto che la maggioranza dei partiti aveva già espresso il suo sì, confermato nelle urne: su quali materie chiedere più autonomia, con quali vantaggi da acquisire e quali prezzi da pagare nei rispettivi settori e competenze. Ma è proprio quello che si voleva evitare: per un preciso disegno strategico da parte delle forze politiche di maggioranza (che perseguivano l’ottenimento del dividendo politico del sì al referendum e non avevano interesse ad andare troppo nel dettaglio, cosa che peraltro avrebbero avuto difficoltà a fare); e per insipienza e inconsapevolezza di quelle di opposizione (che non hanno mai nemmeno cominciato ad articolare una loro strategia su quale autonomia volevano, e come si differenziava da quella voluta dalla Lega). Ora che la palla di neve del referendum diventa una valanga che mano a mano travolge i diversi comparti coinvolti, si comincia finalmente a discutere. Ed emergono le differenti visioni di società che implicano necessariamente concezioni molto diverse dell’autonomia. Una prima riflessione emerge dal mondo dell’accademia, ma altri cominceranno presto. L’università deve rimanere statale? O è opportuno che sia regionalizzata? Quali sono vantaggi e svantaggi? C’è un problema di risorse, naturalmente cruciale: quanto ci vuole mettere la Regione? Tanto quanto ci mette lo Stato, operando un mero trasferimento dell’ente erogante? Di più? (e, nel caso, togliendo da quali altri capitoli di bilancio). Di meno? Si vorrebbero regionalizzare i concorsi o il finanziamento alla ricerca? L’università affronta il tema in maniera laica, non ideologica: come tutte le istituzioni pensa a quali vantaggi può acquisire e quali svantaggi rischia di subire. In termini di fondi, di gestione, di tutela dall’invasività della politica (dato che un presupposto fondamentale della sua stessa esistenza è la sua autonomia), e altro ancora. Certo che uno stretto legame con il territorio – che c’è già, ma può e deve migliorare – è utile e auspicabile. Ma il modo è tutto. Un conto è creare strumenti – possibili anche senza regionalizzazione – per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, o per garantire meglio il diritto allo studio e favorire l’accesso all’istruzione superiore (in una regione che conta meno laureati della media nazionale, e non certo per mancanza di università, per giunta ai vertici delle classifiche nazionali).
Un altro è dare linee guida che rischiano di essere in controtendenza con una istituzione essenzialmente cosmopolita come è – e non può non essere – l’università, fin dalle origini della sua storia (che vede nell’università di Padova e nel suo motto – Universa universis patavina libertas, che all’ingrosso significa che la libertà di Padova si rivolge a tutti, innanzitutto aprendosi agli stranieri, sia come studenti che come docenti – uno dei più antichi e prestigiosi esempi).
Si spiega, dunque, la cautela dei rettori che si sono fin qui espressi. Un esempio, che mostra come le logiche accademiche e quelle di certo autonomismo confliggano anche quando non si incontrano sullo stesso terreno, è dato proprio dalle prime iniziative di bandiera del venetismo, approvate già prima del referendum (e che dall’autonomia rischiano di essere rafforzate). Le università sono valutate in base a ranking internazionali, dove proprio il livello di internazionalizzazione ha un peso di rilievo: numero di docenti e di studenti stranieri, numero di pubblicazioni in inglese, partecipazione a progetti di ricerca internazionali. I provvedimenti «prima i veneti», che vincolano l’erogazione di risorse (accesso ai servizi sociali, agli asili, agli alloggi popolari, ecc.) a una permanenza di almeno quindici anni in regione, il rifiuto di riconoscere la diversità etnica, culturale e religiosa (impensabile in un laboratorio scientifico) o i tentativi di imporre il dialetto, sono di per sé all’opposto delle logiche di funzionamento dell’università, pur non parlando di essa. E mostrano quanto quella sull’autonomia sia anche – forse soprattutto – una battaglia culturale non su ciò che si è, ma su dove si vuole andare.