SE IL PIAVE ORA MORMORA «MANDI»
Milletrecentoventotto persone oggi si svegliano in un’altra regione rispetto a quella in cui hanno vissuto per decenni. Erano veneti, sono friulani. Il voto referendario degli abitanti di Sappada, che nel 2008 avevano espresso il desiderio di abbandonare il Veneto, ieri ha trovato risposta dalla Camera dei Deputati, che ha votato a maggioranza a favore del distacco. La remota Sappada, isolatissimo angolo (finora) della provincia di Belluno, lassù, oltre il già remoto Comelico, un tempo colonia penale della Serenissima; la strana Sappada, che veneta non si è mai sentita, in quella singolare posizione in cui si trova, a due passi dall’Austria, da oggi dice «mandi», parla friulano.
Ma friulana non è: questo è il punto. Nel dialetto locale, una variante del tedesco, Sappada si chiama infatti Plodn; le sue radici sono in un insediamento sporadico di alcune famiglie austriache, che dietro concessione del Patriarca di Aquileia vi vennero a vivere nel Cinquecento; i nomi delle frazioni sono mezzi germanici; il celebre carnevale locale, con le maschere intagliate in legno dagli artigiani, è vicino alle usanze austriache più che a quelle di Udine o di Pordenone; e a tutt’oggi, il pellegrinaggio annuale che i sappadini compiono secondo antica tradizione è quello al santuario alpino di Maria Luggau, in Carinzia, che è a sole nove ore di cammino dalla valle.
Che cosa vogliamo dire con questo stringatissimo Baedeker di cultura locale? Che il passaggio di Sappada al Friuli-Venezia Giulia ha un significato altro rispetto alle pur nobili ragioni storiche e culturali che accampa qualcuno.
Da oggi si apre, o si rilancia, una partita ben più vasta. La notizia è che Sappada ce l’ha fatta: a differenza di Lamon, che votò a stragrande maggioranza per unirsi al Trentino nel 2005, a differenza della vicina Cortina, che esattamente dieci anni fa votò per l’Alto Adige, Sappada ha vinto. Quelli che perdono sono tutti gli altri. Il Veneto perde un pezzetto di territorio (con la beffa clamorosa: le sorgenti del Piave, a 1.800 metri di altitudine, sotto il monte Peralba, da oggi si trovano in Friuli). E il governatore Luca Zaia può riprendere la sua battaglia: «L’unica cura è l’autonomia», ha tuonato ieri. Perde, clamorosamente, lo Stato italiano: perché la secessione di Sappada conferma la profonda crisi che attraversa l’istituto delle regioni ordinarie, premiate con poteri e attribuzioni prima dalla Costituzione e poi dalla riforma del titolo V del 2001, ma sempre lasciate indietro rispetto a quelle a statuto speciale.
È un’ingiustizia, e il caso-Sappada ce lo ricorda con urgenza. E l’oggettiva constatazione che i soldi che il Friuli-Venezia Giulia e soprattutto il Trentino e l’Alto Adige trattengono sul territorio siano amministrati sicuramente meglio che nella maggioranza delle altre regioni italiane (basta farsi un giro per gli asili e le scuole e gli ospedali della Val Pusteria per rendersi conto dell’altissima qualità di quel welfare assistito) non basta come giustificazione di un privilegio storico che, allo stato attuale delle cose, andrebbe perlomeno ripensato.
Non è un caso che la crisi si inneschi in uno di quei luoghi, la provincia di Belluno appunto, che più soffre la durissima concorrenza di territori che godono di condizioni fiscali oggettivamente di netto ed evidente vantaggio.
Ecco che, lasciato da parte il folklore, la storia, le emozioni dei ladini e la memoria degli Asburgo, tutto torna a quelli che il giornalista del «Corriere della Sera» Gian Antonio Stella mise iconicamente a titolo di un suo libro quasi classico: Schèi.
Ora come allora, le motivazioni sono primariamente, clamorosamente economiche.
Certo, le radici comuni; certo, l’identità di un territorio; certo, idiomi e usanze secolari.
Ma sopra (o sotto) a tutto questo, ci permettiamo di pensare, in termini marxiani, alla struttura più che alla sovrastruttura.