Corriere di Verona

SE IL PIAVE ORA MORMORA «MANDI»

- Di Francesco Chiamulera

Milletrece­ntoventott­o persone oggi si svegliano in un’altra regione rispetto a quella in cui hanno vissuto per decenni. Erano veneti, sono friulani. Il voto referendar­io degli abitanti di Sappada, che nel 2008 avevano espresso il desiderio di abbandonar­e il Veneto, ieri ha trovato risposta dalla Camera dei Deputati, che ha votato a maggioranz­a a favore del distacco. La remota Sappada, isolatissi­mo angolo (finora) della provincia di Belluno, lassù, oltre il già remoto Comelico, un tempo colonia penale della Serenissim­a; la strana Sappada, che veneta non si è mai sentita, in quella singolare posizione in cui si trova, a due passi dall’Austria, da oggi dice «mandi», parla friulano.

Ma friulana non è: questo è il punto. Nel dialetto locale, una variante del tedesco, Sappada si chiama infatti Plodn; le sue radici sono in un insediamen­to sporadico di alcune famiglie austriache, che dietro concession­e del Patriarca di Aquileia vi vennero a vivere nel Cinquecent­o; i nomi delle frazioni sono mezzi germanici; il celebre carnevale locale, con le maschere intagliate in legno dagli artigiani, è vicino alle usanze austriache più che a quelle di Udine o di Pordenone; e a tutt’oggi, il pellegrina­ggio annuale che i sappadini compiono secondo antica tradizione è quello al santuario alpino di Maria Luggau, in Carinzia, che è a sole nove ore di cammino dalla valle.

Che cosa vogliamo dire con questo stringatis­simo Baedeker di cultura locale? Che il passaggio di Sappada al Friuli-Venezia Giulia ha un significat­o altro rispetto alle pur nobili ragioni storiche e culturali che accampa qualcuno.

Da oggi si apre, o si rilancia, una partita ben più vasta. La notizia è che Sappada ce l’ha fatta: a differenza di Lamon, che votò a stragrande maggioranz­a per unirsi al Trentino nel 2005, a differenza della vicina Cortina, che esattament­e dieci anni fa votò per l’Alto Adige, Sappada ha vinto. Quelli che perdono sono tutti gli altri. Il Veneto perde un pezzetto di territorio (con la beffa clamorosa: le sorgenti del Piave, a 1.800 metri di altitudine, sotto il monte Peralba, da oggi si trovano in Friuli). E il governator­e Luca Zaia può riprendere la sua battaglia: «L’unica cura è l’autonomia», ha tuonato ieri. Perde, clamorosam­ente, lo Stato italiano: perché la secessione di Sappada conferma la profonda crisi che attraversa l’istituto delle regioni ordinarie, premiate con poteri e attribuzio­ni prima dalla Costituzio­ne e poi dalla riforma del titolo V del 2001, ma sempre lasciate indietro rispetto a quelle a statuto speciale.

È un’ingiustizi­a, e il caso-Sappada ce lo ricorda con urgenza. E l’oggettiva constatazi­one che i soldi che il Friuli-Venezia Giulia e soprattutt­o il Trentino e l’Alto Adige trattengon­o sul territorio siano amministra­ti sicurament­e meglio che nella maggioranz­a delle altre regioni italiane (basta farsi un giro per gli asili e le scuole e gli ospedali della Val Pusteria per rendersi conto dell’altissima qualità di quel welfare assistito) non basta come giustifica­zione di un privilegio storico che, allo stato attuale delle cose, andrebbe perlomeno ripensato.

Non è un caso che la crisi si inneschi in uno di quei luoghi, la provincia di Belluno appunto, che più soffre la durissima concorrenz­a di territori che godono di condizioni fiscali oggettivam­ente di netto ed evidente vantaggio.

Ecco che, lasciato da parte il folklore, la storia, le emozioni dei ladini e la memoria degli Asburgo, tutto torna a quelli che il giornalist­a del «Corriere della Sera» Gian Antonio Stella mise iconicamen­te a titolo di un suo libro quasi classico: Schèi.

Ora come allora, le motivazion­i sono primariame­nte, clamorosam­ente economiche.

Certo, le radici comuni; certo, l’identità di un territorio; certo, idiomi e usanze secolari.

Ma sopra (o sotto) a tutto questo, ci permettiam­o di pensare, in termini marxiani, alla struttura più che alla sovrastrut­tura.

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