Delitto Armando, assolte le due figlie
Scagionati i quattro imputati per il delitto di San Bonifacio del ‘94: «Torniamo a vivere»
La Corte d’Assise ha assolto, per l’omicidio di Maria Armando, l’infermiera veronese massacrata il 23 febbraio del 1994 nella sua abitazione, le figlie Cristina e Katia Montanaro e gli altri due imputati (l’allora fidanzato di Cristina, Salvador Versaci e la loro amica Marika Cozzula), cu sui pendeva una richiesta di ergastolo. Il «cold case» era stato riaperto dopo le dichiarazioni dell’unica condannata in via definitiva per il delitto: la padovana Alessandra Cusin.
«Assolti». E, alla fine, sono entrambe scoppiate in un pianto liberatorio. Una davanti all’altra, come sempre. Anche ieri, a distanza di 24 anni da quel terribile pomeriggio in cui la loro madre fu ritrovata massacrata all’interno dell’appartamento di Praissola di San Bonifacio, hanno atteso il verdetto della Corte d’Assise nei banchi in cui erano rimaste sedute durante tutte le udienze del processo a loro carico.
Perché su Cristina e Katia Montanaro, come sugli altri due imputati (l’allora fidanzato di Cristina, Salvador Versaci e la loro amica Marika Cozzula) pendeva una richiesta di ergastolo per l’omicidio di Maria Armando, l’infermiera veronese massacrata il 23 febbraio del 1994 nella sua abitazione. Accoltellata più di venti volte, trascinata sul pavimento e poi, una volta morta, umiliata con un bastone conficcato nelle parti intime.
Un «cold case» riaperto dopo le dichiarazioni dell’unica condannata in via definitiva per il delitto: la padovana Alessandra Cusin. Proclamatasi sempre innocente, dopo essere stata condannata con l’accusa di omicidio in concorso, il 28 aprile del 2015 nel carcere di Montorio la donna aveva deciso di rendere dichiarazioni spontanee al pm Giulia Labia: «Il delitto è stato commesso da Cristina e Salvador, e anche da Katia che l’aveva organizzato con loro e che era d’accordo. Ho saputo questi fatti da Katia dopo la morte della Armando».
Ed era scattata una nuova indagine da parte della procura nei confronti dei suoi presunti complici. Una testimonianza che le difese dei quattro imputati (il collegio era composto dagli avvocati Dal Maso, Todesco, Parziale, Canestrini, Manzato e Tebaldi) hanno tentato di «sgretolare» nel corso del processo celebrato di fronte all’Assise presieduta dal giudice Marzio Bruno Guidorizzi (a latere la collega Camilla Cognetti). «Cusin attribuisce l’omicidio a più persone pur continuando a cambiare il numero e i nomi, ma agli atti non c’è un elemento dal quale desumere la presenza di più persone all’interno della casa. Sono state repertate varie impronte di scarpa tutte riconducibili ad un unico tipo di calzatura», recitava la memoria difensiva prodotta dai legali degli imputati che puntava, tra le altre cose, sulla «sparizione» dell’arma del delitto.
Elementi che hanno portato al corte ad emettere una sentenza di assoluzione per tutti e quattro gli imputati «per non aver commesso il fatto visto l’articolo 530, secondo comma».
Per le motivazioni si dovranno attendere tre mesi, ma ieri mattina le due sorelle non hanno potuto trattenere l’emozione. Al termine della lettura del dispositivo, Katia si è voltata e ha incrociato lo sguardo coperto di lacrime con quello di sua sorella Cristina. Poi un lungo abbraccio, interrotto solamente dai loro singhiozzi. «È andata come era giusto che andasse, abbiamo sempre ribadito la nostra innocenza. E ora è stata fatta verità, perché senza verità non si può andare avanti» ha detto Katia affiancata dagli avvocati Dal Maso e Todesco. La sorella Cristina, la più grande delle due, le ha fatto eco: «È la fine di un incubo. Non si poteva vivere con un peso del genere addosso. Ora si chiude un capitolo, posso ricominciare a vivere». Una breve pausa, un respiro e poi il pensiero a lei, la loro mamma: «La verità oggi è venuta a galla, ma non sappiamo ancora chi sia il colpevole della morte di mia madre». Perché la sentenza di ieri implica una nuova riflessione: chi sono i complici della Cusin, condannata per omicidio in concorso? Un «cold case» che, a distanza di 24 anni, chiede ancora risposte.
Katia È andata come era giusto che andasse: ora c’è la verità Cristina Non si poteva vivere con un peso del genere addosso