Sensori sui tesori di Castelvecchio per scongiurare altri furti
Nuovo sistema di sicurezza ultramoderno, la giunta ha stanziato 85 mila euro
La ferita brucia ancora. Ed è perciò di rilievo l’installazione di un’implementazione del sistema di sicurezza che protegge le più importanti opere d’arte custodite nel Museo di Castelvecchio, comprese quelle 17 che furono clamorosamente trafugare il 19 novembre del 2015. La giunta comunale ha stanziato ieri 85 mila euro per installare un nuovo sistema di sicurezza ultramoderno.
Sono passati due anni e (quasi) un mese, ma la ferita brucia ancora. Ed è perciò di rilievo l’installazione di un’implementazione del sistema di sicurezza che protegge le più importanti opere d’arte custodite nel Museo di Castelvecchio, comprese quelle 17 che furono clamorosamente trafugare il 19 novembre del 2015 e poi «riportate a casa» solo all’antivigilia dello scorso Natale.
La giunta comunale ha stanziato ieri 85 mila euro per installare un nuovo sistema di sicurezza ultramoderno, con nuovissimi sensori che siano sensibili non solo all’asportazione ma anche al minimo movimento delle opere d’arte, dotati di modalità che siano in grado di segnalare anche eventuali tentativi di rimozione dello stesso sistema d’allarme. Secondo la Direzione Musei, il nuovo sistema avrà «caratteristiche di sicurezza, di qualità, di durata e di affidabilità affini ai migliori standard presenti nei musei internazionali». Il sindaco Federico Sboarina ha sottolineato come si sia di fronte «ad un nuovo investimento sulla Cultura, come abbiamo promesso in campagna elettorale e come stiamo confermando anche con scelte come questa».
Il progetto esecutivo, presentato ieri dal sindaco assieme all’assessore Luca Zanotto, «prevede l’installazione del sistema con le caratteristiche tecniche richieste dalla Direzione Musei, presso una selezione d’opere d’arte del Museo di Castelvecchio indicate dalla Direzione medesima, compresi i 17 dipinti a suo tempo trafugati». La delibera sottolinea inoltre che «l’intervento risponde alle richieste per l’implementazione della sicurezza museale avanzate dalla Sovrintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza, a seguito del furto del 19 novembre 2015». Insomma, sempre a quella sera si torna, la sera in cui, grazie ad una complicità interna al museo stesso, una banda moldavo-ucraina riuscì a fare uscire dal Museo e a portare all’estero 17 capolavori assoluti della storia dell’arte.
Seguirono giorni di sbalordimento misto a rabbia, di incertezze e paure, di polemiche e recriminazioni. Poi, a poco a poco, le indagini cominciarono a prendere la strada giusta. Dopo che tutti avevano ipotizzato di tutto (dall’Isis alla mala del Brenta) si capì che il basista era la guardia giurata, con la complicità del fratello e di una banda moldavo-ucraina. Per identificarli, fu necessario un lavoro immane, con l’analisi di dieci milioni di dati telefonici, la visione di 5mila ore di filmati, l’ascolto di migliaia di ore di intercettazioni.
La svolta, come ha a suo tempo ricordato il pubblico ministero Gennaro Ottaviano, anima delle indagini, era stata l’individuazione di un numero telefonico che aveva agganciato sia la cella di Castelvecchio che quella, a Brescia, dove era stata ritrovata l’auto del furto. Dopo di che erano insorte ulteriori complicazioni internazionali («Con le autorità moldave c’è stata grande collaborazione, - spiegò Ottaviano – ma non così con le autorità ucraine»). Così il 15 marzo, il giorno degli arresti, era andato in fumo il recupero dei quadri. Fu a quel punto che lo stesso Ottaviano decise di coinvolgere nelle indagini anche Eurojust. In un incontro a L’Aia, il 28 aprile, gli ucraini furono messi con le spalle al muro. L’11 maggio i quadri vennero ritrovati, vicino a Odessa. Ci vorranno però altri sette mesi perché il museo Kanenko di Kiev li impacchettasse per la spedizione a Verona. Dove adesso sono, se così si può dire, tranquilli, e dove, a breve, saranno ancor meglio protetti.