Opportunità e rischi per chi diventa «preda»
Fedrigoni, Riello e gli altri: il nodo delle dimensioni e dei passaggi generazionali Le opportunità e i rischi per le storiche imprese del territorio diventate «prede»
Il botto di Natale è stato quello delle cartiere Fedrigoni, ma prima a passare agli americani è stata Riello. Sono solo gli ultimi casi del passaggio di gioielli industriali nostrani che vengono acquisiti da fondi stranieri. Ognuna di queste cessioni fa storia a sé, ma la difficoltà del passaggio generazionale, le dimensioni non più adatte per competere ad armi pari sul mercato globale, le difficoltà ad accedere ai capitali per finanziare innovazione e internazionalizzazione sono tratti comuni a molti.
Il botto di Natale è stato VERONA quello delle cartiere Fedrigoni, orgoglio imprenditoriale veronese per quasi 130 anni il cui controllo passerà a un fondo d’investimento americano Bain Capital. Ma non è un caso isolato questo approdo di una storica impresa del territorio in mani straniere. Anzi l’elenco (incompleto) è lungo. La settimana scorsa un’altra nota dinastia di imprenditori veronesi, Riello, è uscita dall’azienda di bruciatori di famiglia ceduta in blocco alla multinazionale Utc, sempre americana. Un caso a parte è poi quello di Melegatti: l’azienda che ha inventato il pandoro è stata tenuto in vita per la campagna di Natale solo grazie ai soldi di un fondo d’investimento maltese, con una situazione per altro ancora piuttosto confusa, al momento. Altri fondi d’investimento (italiani e inglesi) sono quelli che hanno salvato la Ferroli, uno dei gioielli del distretto termomeccanico veronese, al prezzo però di una pesantissima ristrutturazione che ha portato al sacrificio della storica fonderia di San Bonifacio (poi rimessa in funzione quest’anno da 62 ex dipendenti riuniti in una cooperativa battezzata «Dante» in onore del vecchio fondatore, morto nel 2015). Quest’anno c’è stato anche, a febbraio, il passaggio del gruppo della climatizzazione Mcs di Pastrengo al fondo svedese Procuritas. A luglio, i cinesi di Qrbg hanno completato l’acquisizione della Quarella (di cui erano distributori), azienda di Sant’Ambrogio di Valpolicella di marmi e agglomerati con quarant’anni di storia, salvando così oltre al marchio anche i 185 dipendenti. E non è certo un fenomeno che riguarda solo Verona. Basta guardare quel che succede in giro per il Veneto per vedere come le nostre lepri sono finite più volte nella rete di gruppi stranieri.
Ognuna di queste cessioni fa storia a sé, ma forse alcuni tratti comuni si possono riconoscere: la difficoltà del passaggio generazionale, le dimensioni non più adatte per competere ad armi pari sul mercato globale, le difficoltà ad accedere ai capitali per finanziare innovazione e internazionalizzazione. E così aziende profondamente radicate, che qui sono nate e prosperate, diventano preda di grandi gruppi che non hanno certo come primo obiettivo il mantenimento del loro legame con il territorio. «L’imprenditore garantisce un legame con il territorio, con le famiglie, che forse è stato anche un po’ paternalistico. Ma questi fondi stranieri sono spesso soggetti neutri. E i soldi che arrivano possono anche ripartire con la stessa facilità», ragiona Massimo Castellani, segretario provinciale della Cisl. È chiaro che, continua Castellani, i grandi fondi d’investimento stranieri hanno «come primo obiettivo quello di massimizzare i propri
Alessandro Lai Il rischio speculazione c’è ma ben vengano i fondi se l’alternativa sono imprese “spente” Giovanni Costa I nostri campioni devono aggregarsi: Veronesi, Bauli e Rana dovrebbero unire le forze
profitti nel minor tempo possibile, di solito nell’arco di cinque anni. Scontiamo la grande debolezza delle politiche industriali del nostro paese. Se hai la fortuna di un cambio generazionale positivo, come in Bauli, Rana o Pedrollo, te la cavi e puoi anche rilanciare. Quando questo non succede, siamo impotenti di fronte a questi colossi». La colpa è anche di quegli imprenditori che, secondo il segretario della Cisl, «non hanno fatto fruttare tutti i guadagni fatti negli anni d’oro investendoli in ricerca e innovazione e hanno pian piano ceduto il passo».
Si può anche sforzarsi di vedere il bicchiere mezzo pieno, come fa Alessandro Lai, professore di Economia aziendale all’Università di Verona. «Il rischio che un investimento straniero in Italia possa avere carattere speculativo c’è - avverte - ma in via generale è positivo che capitali stranieri trovino in Italia industrie da cui si aspettano ritorni importanti, tanto più che questo può portare anche a maggiori efficienza con l’introduzione di più evoluti modelli di governance». Insomma, ben vengano gli investimenti stranieri, specialmente quando l’alternativa «è lo spegnimento dell’impresa», specialmente in presenza di transizioni generazionali difficoltose. Semmai, sottolinea Lai, desta preoccupazione che i nostri campioni industriali fatichino a dotarsi di un management adeguato alle sfide dell’internazionalizzazione, anche perché spesso - banalmente - non se lo possono permettere.
Si torna, in fondo, sempre allo stesso problema: quello delle dimensioni troppo ridotte delle nostre imprese. «Abbiamo bisogno di aggregatori o almeno di campioni che si aggregano -dice Giovanni Costa, docente di strategia d’impresa all’Università di Padova -. Per esempio dico che nell’alimentare tre realtà veronesi come Veronesi, Bauli e Rana dovrebbero trovare il coraggio di unire le forze. Sono tutte aziende in salute e in crescita, con strategie ben chiare. Ma il salto verrebbe dalla loro unione, che darebbe vita a un polo alimentare di forza mondiale. Ma idee di questo tipo in giro non se ne vedono».