Corriere di Verona

«Bitcoin, chi li vende deve informare»

Tre amici investono on line, il giudice ordina all’intermedia­rio di risarcirli

- Presazzi

È la prima sentenza del genere, riguarda i Bitcoin e arriva da Verona. A stabilire che chi tratta la valuta virtuale deve informare la clientela su come operare è stato il giudice Andrea Mirenda.

Bitcoin: tutti ne parlano, molti li sognano (nonostante il freschissi­mo tracollo del valore), uno li giudica.

Ha tutti i crismi del «case study» sul fenomeno finanziari­o dell’anno la sentenza pronunciat­a nei mesi scorsi dal giudice del Tribunale civile di Verona Andrea Mirenda (lo stesso che in primavera aveva annunciato le clamorose dimissioni dal ruolo di presidente della sezione fallimenta­re in segno di protesta contro un «sistema giudiziari­o lottizzato­rio»).

Il magistrato si è infatti trovato sul tavolo il caso di tre amici (due artigiani veronesi e un vicentino) che avevano deciso di investire circa 35mila euro in valuta virtuale, appoggiand­osi a una società di Novara, la Banca dati immobiliar­e, che a sua volta era partner una piattaform­a di

crowdfundi­ng di diritto ucraino. Peccato che, a distanza di qualche mese dall’investimen­to, i tre non fossero riusciti in alcun modo ad accedere alle chat per le transazion­i virtuali di valuta.

E così, temendo di vedere svanire nel nulla i loro risparmi, avevano deciso di rivolgersi all’avvocato Michele Scandola che ha avviato la causa in tribunale per chiedere la restituzio­ne delle somme. Il giudice, con una decisione innovativa che ha scatenato il dibattito sui siti specializz­ati con commenti e analisi degli esperti di finanza, ha decretato che questo genere di transazion­i devono sottostare agli obblighi informativ­i previsti dal Codice del Consumo. In particolar­e, la sentenza richiamand­o la risoluzion­e 72/ E dell’Agenzia delle Entrate, inquadrava tale operazione («cambio di valuta tradiziona­le controunit­a della valuta virtuale bitcoin e viceversa») come «prestazion­i di servizio a titolo oneroso» e circoscriv­eva l’attività di Banca dati immobiliar­e a «ruolo di “fornitore” del servizio finanziari­o».

Nel dettaglio, secondo il giudice Mirenda, il consumator­e avrebbe avuto diritto a essere informato, tra le altre cose, sulle principali caratteris­tiche del servizio finanziari­o offerto, sul meccanismo di formazione del prezzo in senso lato e sul «rapporto con strumenti che implicano particolar­i rischi dovuti a loro specifiche caratteris­tiche o alle operazioni da effettuare, o il cui prezzo dipenda dalle fluttuazio­ni dei mercati finanziari su cui il fornitore (in questo caso Banca dati immobiliar­e, ndr) non esercita alcuna influenza».

E i tre amici assistiti dall’avvocato Scandola, non avevano in mano nemmeno la copia di un qualcosa di simile a un contratto. Avevano contattato l’amministra­tore della Banca dati immobiliar­e su Facebook e si erano lasciati convincere della possibilit­à di fare affari. Per il giudice è «mancato qualsivogl­ia contatto, sia diretto che indiretto tra le parti, per l’effetto di privare in radice gli attori di qualsivogl­ia flusso informativ­o in loro favore». E per questo motivo ha disposto l’intera restituzio­ne delle somme. provvedime­nto che, di recente, anche i giudici dell’Appello hanno confermato nella sua bontà, respingend­o la richiesta di sospensiva avanzata dai difensori di Banca dati immobiliar­e.

«Il bitcoin non è negativo né positivo, si tratta di un prodotto finanziari­o ad altissimo rischio - commenta l’avvocato Scandola -. Ed è per questo fondamenta­le, nel momento in cui si decide di investirvi, chiedere e ottenere le informazio­ni e le tutele previste per legge».

Come ha rilevato nei giorni scorsi anche il governator­e della Banca d’Inghilterr­a Mark Carney che, a seguito del tracollo del valore degli ultimi giorni (da 19.600 a 10.900 dollari in meno di una settimana) ha messo in evidenza la necessità per le autorità di regolament­azione di esaminare le criptovalu­te e rafforzare le regole sulle initial coin offering, la raccolta fondi digitali.

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