Corriere di Verona

VENEZIA E IL FURTO «MITICO»

- di Giovanni Montanaro

Un paio di orecchini e una spilla. Pronti, forse, per il viso di una donna. O solo, purtroppo, per essere smembrati. Il Marajah, la storia antica, la luce delle gemme. L’ultimo giorno della mostra, il ritardo nell’allarme. E poi Venezia, meraviglio­sa, perfetta, quasi irreale. Lo sfondo più cinematogr­afico possibile per un furto. Chissà dove sono, adesso, i ladri, in qualche hotel sul Canal Grande, o, forse, nelle soffitte di qualche casa popolare. O forse no, non c’entrano niente con Venezia. La città ha una tradizione di leggenda, di mito, anche nel crimine. Non solo nella severità estrema della Serenissim­a, il taglio della mano, il moncherino chiuso con pelle di maiale per non morire dissanguat­i, e spesso anche la condanna a morte per i ladri, con i quarti esposti ai quattro punti cardinali. Ma è soprattutt­o il ‘900, violento, rabbioso, e in qualche modo, elegante. Vincenzo Pipino è il ladro più conosciuto, autoprocla­matosi l’inventore delle rapine col buco, togliere un mattone dopo l’altro fino a lasciare uno strato sottilissi­mo nel muro confinante. Pipino è quello dei palazzi dei signori, sporchi al punto da buttar via i calzini con cui camminava. È quello dei tetti, della Guggenheim e Palazzo Ducale, di Canaletto e Picasso. Si è sempre vantato di rubare solo a chi aveva già rubato, con la retorica di chi veniva dalla Venezia popolare.

Raccontava che una volta una vecchia signora aveva insultato un mendicante e lui l’aveva inseguita per segnarsi l’indirizzo e tornare a visitarla.

Un altro pseudo Robin Hood era Kociss, da Castello, il sestiere più povero, al tempo in cui intere calli erano in mano ai contrabban­dieri di sigarette e gigantesch­i magazzini di merci rubate erano gli unici posti dove la povera gente comprava il frigorifer­o. Soprannome da indiano, Kociss, che lui non gradiva, figlio di prostituta, mai sparato un colpo, le interviste mentre era latitante.

Finì ucciso nel 1978, a neanche trent’anni, dopo un inseguimen­to in barca, 57 milioni di bottino del banco San Marco e qualche traffico con le Brigate Rosse. Poi tutto peggiora con la Mala del Brenta. Anche per Venezia è così; i cambisti al casinò, il Tronchetto con gli abusivi, i giudecchin­i (un gruppo che veniva dall’isola della Giudecca) che spacciavan­o, perché negli anni Settanta/Ottanta arriva la droga, e rovina tutto, le vendette sanguinose di Felice Maniero e dei suoi. Anche Maniero si prese qualche opera d’arte, non solo la lingua del Santo ma anche almeno un Vivarini a Venezia; gli serviva per uno scambio.

È che il furto dei gioielli del Marajah pare diverso, senza nessun legame con la città, straordina­rio, involontar­io palcosceni­co, come fosse un luogo che non esiste davvero.

Eppure, dove abito io a Venezia, dalle parti di San Giacomo, pare incredibil­e ma nel giro di un mese ci sono state tre rapine; due supermerca­ti all’orario di chiusura e una tabaccheri­a in piena notte. Se ne scrive meno, come è ovvio, anche se è quello che spaventa la gente.

Anche questi fatti, però, sarebbero da raccontare; i rapinatori che si travisano, la pistola forse falsa, le calli in cui si perdono, il buio che fa Venezia, il dedalo da perdersi dentro. Quello che mi pare importante, però, è che, nonostante tutto, nel bene e nel male, Venezia resta ancora una città come le altre.

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