VENEZIA E IL FURTO «MITICO»
Un paio di orecchini e una spilla. Pronti, forse, per il viso di una donna. O solo, purtroppo, per essere smembrati. Il Marajah, la storia antica, la luce delle gemme. L’ultimo giorno della mostra, il ritardo nell’allarme. E poi Venezia, meravigliosa, perfetta, quasi irreale. Lo sfondo più cinematografico possibile per un furto. Chissà dove sono, adesso, i ladri, in qualche hotel sul Canal Grande, o, forse, nelle soffitte di qualche casa popolare. O forse no, non c’entrano niente con Venezia. La città ha una tradizione di leggenda, di mito, anche nel crimine. Non solo nella severità estrema della Serenissima, il taglio della mano, il moncherino chiuso con pelle di maiale per non morire dissanguati, e spesso anche la condanna a morte per i ladri, con i quarti esposti ai quattro punti cardinali. Ma è soprattutto il ‘900, violento, rabbioso, e in qualche modo, elegante. Vincenzo Pipino è il ladro più conosciuto, autoproclamatosi l’inventore delle rapine col buco, togliere un mattone dopo l’altro fino a lasciare uno strato sottilissimo nel muro confinante. Pipino è quello dei palazzi dei signori, sporchi al punto da buttar via i calzini con cui camminava. È quello dei tetti, della Guggenheim e Palazzo Ducale, di Canaletto e Picasso. Si è sempre vantato di rubare solo a chi aveva già rubato, con la retorica di chi veniva dalla Venezia popolare.
Raccontava che una volta una vecchia signora aveva insultato un mendicante e lui l’aveva inseguita per segnarsi l’indirizzo e tornare a visitarla.
Un altro pseudo Robin Hood era Kociss, da Castello, il sestiere più povero, al tempo in cui intere calli erano in mano ai contrabbandieri di sigarette e giganteschi magazzini di merci rubate erano gli unici posti dove la povera gente comprava il frigorifero. Soprannome da indiano, Kociss, che lui non gradiva, figlio di prostituta, mai sparato un colpo, le interviste mentre era latitante.
Finì ucciso nel 1978, a neanche trent’anni, dopo un inseguimento in barca, 57 milioni di bottino del banco San Marco e qualche traffico con le Brigate Rosse. Poi tutto peggiora con la Mala del Brenta. Anche per Venezia è così; i cambisti al casinò, il Tronchetto con gli abusivi, i giudecchini (un gruppo che veniva dall’isola della Giudecca) che spacciavano, perché negli anni Settanta/Ottanta arriva la droga, e rovina tutto, le vendette sanguinose di Felice Maniero e dei suoi. Anche Maniero si prese qualche opera d’arte, non solo la lingua del Santo ma anche almeno un Vivarini a Venezia; gli serviva per uno scambio.
È che il furto dei gioielli del Marajah pare diverso, senza nessun legame con la città, straordinario, involontario palcoscenico, come fosse un luogo che non esiste davvero.
Eppure, dove abito io a Venezia, dalle parti di San Giacomo, pare incredibile ma nel giro di un mese ci sono state tre rapine; due supermercati all’orario di chiusura e una tabaccheria in piena notte. Se ne scrive meno, come è ovvio, anche se è quello che spaventa la gente.
Anche questi fatti, però, sarebbero da raccontare; i rapinatori che si travisano, la pistola forse falsa, le calli in cui si perdono, il buio che fa Venezia, il dedalo da perdersi dentro. Quello che mi pare importante, però, è che, nonostante tutto, nel bene e nel male, Venezia resta ancora una città come le altre.