Corriere di Verona

«Non è qualche anno di università che cambia la capacità di insegnare»

- di Giovanni Viafora

Ma lei se la ricorda la sua maestra?

«E come no! La signora Marcella Antonini. Mora, poi ingrigita con la vita. Gentile, ma fermissima. Veniva dalla città, Pordenone, ed era pure di buona società. Si figuri in una classe come la nostra, di paese (Visinale di Pasiano, ndr). Erano i primi anni Sessanta: a farla da padrona era l’ottusità di certi ragazzi di campagna. Pensi che in prima elementare noi parlavamo solo dialetto. Diciamo che spesso aveva momenti di esasperazi­one e stanchezza...».

Gian Mario Villalta, classe 1959, poeta e scrittore, direttore del festival letterario «Pordenonel­egge». E insegnante. Anzi, forse soprattutt­o insegnante.

Non le chiedo neanche se la maestra Antonini avesse la laurea... «Certo che no. Ma era una

persona per bene. Il punto è che all’epoca quello era un altro mestiere: al maestro era chiesto di insegnare i rudimenti del leggere e dello scrivere e di informare i discepoli sulle cose della vita. Adesso è un altro mondo». Cioè?

«Mia figlia ha appena finito la scuola elementare. I ragazzi oggi sono molto più svegli. Sono bombardati dalle informazio­ni. Anzi, ne hanno fin troppe. Per cui il lavoro del maestro è diventato quello di orientare gli alunni in questo flusso. Facendo capire ai ragazzi la loro posizione nel mondo. Anche molto presto. Le assicuro che oggi imparano cinquanta volte quello che imparavamo noi».

Senza citare annessi e connessi: se la maestra Antonini si fosse confrontat­a con certe chat collettive su WhatsApp

maestri-genitori... «Adesso i papà e le mamme sono molto più attenti, alcuni anche troppo. Ingeriscon­o, vogliono decidere. Pensano di sapere, quando invece la loro è più che altro presunzion­e». E la maestra di sua figlia, invece, era laureata?

«Non mi sono mai informato. Perché sin dall’inizio il rapporto è stato sulle cose, non sul titolo di studio. Insomma, se avessi riscontrat­o delle lacune o delle carenze me lo sarei chiesto. Ma non è successo. Ho questa idea: non posso pensare che sia qualche anno di Scienze della Formazione a cambiare la realtà psichica del maestro o la sua capacità di fare il lavoro. È l’esperienza dell’insegnamen­to a creare l’insegnante. Oltretutto, se vogliamo essere più realisti del re: una laurea in Scienze della Formazione cambia davvero il mondo?

Ti fa dire che una persona che fa da dieci anni questo mestiere sia peggio di una che ha solo un titolo di studio?».

Le maestre «laureate» opporrebbe­ro questo: che il Paese non ha bisogno di «maestri per caso»...

«Non conosco le ragioni tecniche alla base della decisione del Consiglio di Stato. Sono d’accordo però che l’intervento doveva valere pro futuro. Mi chiedo: questa necessità di imporre tali criteri è derivata dal riscontro di gravi carenze o è dettata da altro? Perché se è dettata da altro allora è un’ingiustizi­a. Se fino ad oggi andava bene che questa gente insegnasse, adesso all’improvviso cosa si fa? E perché chi non ha la laurea può comunque fare supplenze?».

C’è un passo di una vecchia commedia Ottocentes­ca («La Maestrina» di Luigi Morandi) in cui si diceva che le maestre dovevano avere solo due qualità: «Religione e morale, morale e religione». Oggi, invece, che qualità dovrebbero avere? E in definitiva, la brava maestra chi è?

«È quella che fa rendere conto di sé il bambino. Le cose che trasmette devono essere innanzitut­to importanti per sé stessa. Se vuoi farli piangere, commuoviti un pochino anche tu, diceva Orazio. E poi deve

avere attenzione a registrare tutti i segnali esterni. Non basta più appellarsi al programma ministeria­le: dentro o fuori. No. La scuola oggi non dovrebbe lasciare mai indietro, ma non per penalizzar­e i più bravi. Ma per non far perdere l’orientamen­to a tutti gli altri». Ma allora che percorso vede?

«Chiarament­e le competenze occorrono. E credo che per altro siano diffuse nel nostro territorio. Sapere di più è meglio, ma saperne tanto senza un patrimonio affettivo da mettere a disposizio­ne non serve a nulla».

Nel suo libro «Scuola di felicità» (Mondadori, 2016) vi è un personaggi­o, la dirigente Lisa Bardella, che vuole aumentare la «Felicità interna lorda» dell’istituto attraverso criteri di valutazion­e e razionaliz­zazioni. È quello che succede oggi? Insomma, basta una laurea per la «Fil» delle nostre scuole?

«È la solita mania italiana. Che per altro ha un suo fondamento. Ma qualsiasi cosa tu faccia sul campo è diverso da quello che si apprende su un libro. Siamo maniaci dall’eccesso di formazione avulsa dall’esperienza di lavoro. Ma perché non abbiamo mai avuto rispetto del lavoro».

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