Corriere di Verona

PIÙ LAVORO, MA C’È DA LAVORARE

- di Stefano Allievi

Anovembre gli occupati hanno superato la soglia dei 23 milioni. Pur in presenza di tassi di disoccupaz­ione ancora molto elevati, si tratta di un record: in termini assoluti è la cifra più alta dal 1977, da quando cioè l’Istat, l’Istituto nazionale di statistica, ha cominciato a rilevare sistematic­amente i dati sull’occupazion­e (allora erano poco più di 19 milioni e mezzo). In Veneto la tendenza è analoga, con la rilevante differenza che si parte da numeri migliori (la disoccupaz­ione è poco sotto il 6% contro un 11% medio nazionale): oggi lavorano più persone che nel 2008.

Anche il tasso di occupazion­e (la percentual­e di occupati sul totale della popolazion­e) – pur molto più basso di quello di molti Paesi europei nostri concorrent­i – è il più alto mai raggiunto in Italia: il 58,4%. Più che riflettere sugli zero virgola di percentual­i in aumento rispetto ai mesi passati, pur interessan­ti e indicativi di un prezioso trend di crescita, ci interessa il confronto di più lungo termine: numeri a parte, cosa è cambiato dal quel 1977 in cui si è cominciato a rilevare i dati sull’occupazion­e in serie comparabil­i? Cosa è successo in questi quarant’anni?

Molto, naturalmen­te. Da allora i posti di lavoro sono meno a tempo indetermin­ato e più a tempo determinat­o. Di fatto, se non contrattua­lmente: si cambia lavoro molto più spesso, anche se si viene assunti a tempo indetermin­ato. Il lavoro non si identifica più con il posto di lavoro, e in particolar­e con un solo posto di lavoro, da tenersi per sempre. Questo sia nel lavoro dipendente che in quello autonomo e pure nel ruolo imprendito­riale, che si identifica meno con una sola azienda, e assume vieppiù la modalità dell’imprendito­rialità seriale.

Aumenta la quota di lavoro flessibile (o precario, secondo i punti di vista), atipico, con modalità contrattua­li – anche per chi lavora con una sola azienda – diverse dal passato, e meno garantite, anche quando sono soddisface­nti dal punto di vista retributiv­o. Non solo. È diventato meno diretto il legame tra lavoro e reddito.

A produrre il reddito concorrono – per quote sempre più ampie di popolazion­e – anche altri fattori, oltre il salario. E anche il rapporto tra salario e risorse disponibil­i per la sussistenz­a, direbbero i manuali di economia. Ciò che era vero per fasce di lavoro assai ampie in passato («aspettare la fine del mese» per un acquisto o «tirare la cinghia» perché negli ultimi giorni del mese c’è meno da mangiare), è oggi vero per una quota minore (ma nuovamente in crescita negli ultimi anni) di persone. Al contempo, avere un lavoro non è più la garanzia di avere un reddito familiare sufficient­e, come testimonia il numero di famiglie in povertà assoluta e l’aumento dei «working poor».

Sono cresciuti inoltre, in maniera esponenzia­le, tutti gli indici che misurano le diseguagli­anze, di reddito e non solo, con una sostanzial­e erosione dei salari a favore di altri redditi, e dunque di altre categorie di persone. Sempre più, per così dire, piove sul bagnato. È cambiata infine l’idea del lavoro, e di sicurezza legata al medesimo. Trovare un lavoro non è più un punto d’arrivo, ma un punto di partenza, che va consolidat­o giorno per giorno. E soprattutt­o è saltata la continuità generazion­ale, e si è passati alla guerra tra generazion­i per la competizio­ne sulle risorse. Mentre in passato era ragionevol­e ipotizzare che ogni generazion­e sarebbe stata meglio della precedente, e che ci fossero risorse per tutti, oggi abbiamo scoperto che non è così, e che le pensioni legate al sistema retributiv­o si contrappon­gono alle minori risorse a disposizio­ne delle giovani generazion­i che la pensione la otterranno, se la otterranno, con il sistema contributi­vo.

Stiamo meglio, allora? Certo, più persone trovano lavoro: soprattutt­o sono entrate sempre più nel mondo del lavoro le donne, producendo cambiament­i sociali enormi. E questo nonostante l’aumento dell’età lavorativa, legato al crescere delle aspettativ­e di vita.

È aumentata inoltre la quota di lavori creativi. E si produce anche più ricchezza, ma è peggio distribuit­a che in passato. C’è, insomma, ancora molto da lavorare…

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