PIÙ LAVORO, MA C’È DA LAVORARE
Anovembre gli occupati hanno superato la soglia dei 23 milioni. Pur in presenza di tassi di disoccupazione ancora molto elevati, si tratta di un record: in termini assoluti è la cifra più alta dal 1977, da quando cioè l’Istat, l’Istituto nazionale di statistica, ha cominciato a rilevare sistematicamente i dati sull’occupazione (allora erano poco più di 19 milioni e mezzo). In Veneto la tendenza è analoga, con la rilevante differenza che si parte da numeri migliori (la disoccupazione è poco sotto il 6% contro un 11% medio nazionale): oggi lavorano più persone che nel 2008.
Anche il tasso di occupazione (la percentuale di occupati sul totale della popolazione) – pur molto più basso di quello di molti Paesi europei nostri concorrenti – è il più alto mai raggiunto in Italia: il 58,4%. Più che riflettere sugli zero virgola di percentuali in aumento rispetto ai mesi passati, pur interessanti e indicativi di un prezioso trend di crescita, ci interessa il confronto di più lungo termine: numeri a parte, cosa è cambiato dal quel 1977 in cui si è cominciato a rilevare i dati sull’occupazione in serie comparabili? Cosa è successo in questi quarant’anni?
Molto, naturalmente. Da allora i posti di lavoro sono meno a tempo indeterminato e più a tempo determinato. Di fatto, se non contrattualmente: si cambia lavoro molto più spesso, anche se si viene assunti a tempo indeterminato. Il lavoro non si identifica più con il posto di lavoro, e in particolare con un solo posto di lavoro, da tenersi per sempre. Questo sia nel lavoro dipendente che in quello autonomo e pure nel ruolo imprenditoriale, che si identifica meno con una sola azienda, e assume vieppiù la modalità dell’imprenditorialità seriale.
Aumenta la quota di lavoro flessibile (o precario, secondo i punti di vista), atipico, con modalità contrattuali – anche per chi lavora con una sola azienda – diverse dal passato, e meno garantite, anche quando sono soddisfacenti dal punto di vista retributivo. Non solo. È diventato meno diretto il legame tra lavoro e reddito.
A produrre il reddito concorrono – per quote sempre più ampie di popolazione – anche altri fattori, oltre il salario. E anche il rapporto tra salario e risorse disponibili per la sussistenza, direbbero i manuali di economia. Ciò che era vero per fasce di lavoro assai ampie in passato («aspettare la fine del mese» per un acquisto o «tirare la cinghia» perché negli ultimi giorni del mese c’è meno da mangiare), è oggi vero per una quota minore (ma nuovamente in crescita negli ultimi anni) di persone. Al contempo, avere un lavoro non è più la garanzia di avere un reddito familiare sufficiente, come testimonia il numero di famiglie in povertà assoluta e l’aumento dei «working poor».
Sono cresciuti inoltre, in maniera esponenziale, tutti gli indici che misurano le diseguaglianze, di reddito e non solo, con una sostanziale erosione dei salari a favore di altri redditi, e dunque di altre categorie di persone. Sempre più, per così dire, piove sul bagnato. È cambiata infine l’idea del lavoro, e di sicurezza legata al medesimo. Trovare un lavoro non è più un punto d’arrivo, ma un punto di partenza, che va consolidato giorno per giorno. E soprattutto è saltata la continuità generazionale, e si è passati alla guerra tra generazioni per la competizione sulle risorse. Mentre in passato era ragionevole ipotizzare che ogni generazione sarebbe stata meglio della precedente, e che ci fossero risorse per tutti, oggi abbiamo scoperto che non è così, e che le pensioni legate al sistema retributivo si contrappongono alle minori risorse a disposizione delle giovani generazioni che la pensione la otterranno, se la otterranno, con il sistema contributivo.
Stiamo meglio, allora? Certo, più persone trovano lavoro: soprattutto sono entrate sempre più nel mondo del lavoro le donne, producendo cambiamenti sociali enormi. E questo nonostante l’aumento dell’età lavorativa, legato al crescere delle aspettative di vita.
È aumentata inoltre la quota di lavori creativi. E si produce anche più ricchezza, ma è peggio distribuita che in passato. C’è, insomma, ancora molto da lavorare…