Corriere di Verona

«MUSICA CHE PASSIONE CON LA MIA VERONA BEAT»

Gli anni sessanta, la passione per la musica, le serate con «Le Scosse» e l’esibizione al Piper di Milano «Mi sono sempre sentito un dilettante, ma che bello il mio pezzo a quattro mani con Stefano Bollani»

- di Lorenzo Fabiano

Scaffali colmi di vinili, spartiti qua e là sul tavolino, l’organo, la chitarra sul divano, il pianoforte sul quale troneggia la celebre foto dei Fab Four che attraversa­no in fila le strisce di Abbey Road. La casa di Mario Cammalleri, è un respiro di anni sessanta quando Verona era la capitale del Beat.

Scaffali colmi di vinili, spartiti qua e là sul tavolino, l’organo, la chitarra sul divano, il pianoforte sul quale troneggia la celebre foto dei Fab Four che attraversa­no in fila le strisce di Abbey Road. La casa di Mario Cammalleri, «Marietto» per gli amici, o «Mario Beethoven» come lo chiamavano per sottolinea­re i suoi studi al conservato­rio, è un respiro di anni sessanta quando Verona era la capitale del Beat, tanto da guadagnars­i i gradi di «Piccola Liverpool».

Se grazie a quei quattro la foce del Mersey cambiò per sempre il volto della musica, su quella scia le rive dell’Adige vissero un periodo di altrettant­o fermento; cantine, garage, soffitte, erano i luoghi culto di un sottobosco undergroun­d che pullulava di gruppi, o meglio complessi, come si diceva allora. Mario i suoi swinging years se li è vissuti tutti e oggi dopo tanti anni ne conserva lo spirito con l’aria scanzonata del ragazzo scapigliat­o di allora. «Gli anni sessanta segnarono una vera rivoluzion­e, una totale rottura col passato. La musica in voga era quella delle balere, ma poi arrivarono il rock ’n roll, Elvis, e quindi il fenomeno Beatles ad aprire uno scenario tutto nuovo».

Le band spuntano come funghi: nomi come i Kings, i Tornados, i Condors, sono rimasti nell’alveo del mito della Verona Beat. «Marietto», classe 1949, nasce a Santa Toscana, ma presto trasloca in quartiere Pindemonte: va a scuola all’istituto per corrispond­enti in lingue estere, ma è al conservato­rio che coltiva il suo amore per la musica. 1962, un gruppo di ragazzi ha messo su un gruppo in Valdonega; si chiamano «Le Scosse», hanno bisogno di un tastierist­a e si rivolgono a lui: «Flavio Favetta alla voce, Enzo Vignola al basso, Giancarlo Gavazzoni alla batteria, Adriano Baso alla chitarra solista, Roberto Boggia alla chitarra ritmica, e io alle tastiere. I nostri idoli erano gli Animals, ma a differenza di altri masticavam­o bene l’inglese, soprattutt­o Flavio, il cantante, la cui sorella aveva sposato un americano. In quegli anni in Valdonega ne abitavano parecchi; ci davano i dischi in anteprima: fummo i primi a lanciare un pezzo come «For Your Love» degli Yardbirds. La sala prove era il garage della casa di Vignola in via Castello San Felice. Enzo era un tipo estroso, amava lanciarsi col suo basso in virtuosism­i, e ogni tanto eccedeva. Allora lo richiamavo all’ordine: “dai Enzo, che prima o dopo tè vedaré che la passa de lì…!”. E giù risate». È’ proprio il papà di Vignola a scarrozzar­li con la sua Fiat 1800 a suonare nei locali: dalle feste al Circolo dei Ferrovieri e l’Hotel Milano, ai concerti al «Toresèla» Piper e all’Arlecchino in Borgo Roma: «La cosa si fece più seria: avevamo il nostro pulmino e addirittur­a un manager, Roberto Bragantini, che ci calendariz­zava le serate: nel 1965 suonammo al Piper di Milano, l’anno dopo ci esibimmo sul palco del Corallo in città». Il gruppo si scioglie verso la fine degli anni sessanta: «Eravamo cresciuti, ognuno aveva la sua vita: studio, lavoro, fidanzate, così va il mondo». Mario «Beethoven» lavora alla Mondadori, poi prosegue il percorso profession­ale in ambito grafico ed editoriale. La musica non la perde però mai di vista: a inizio degli anni settanta è il tastierist­a dei Sex Machine, la nuova avventura. Si passa al Progressiv­e e al rock psichedeli­co. Mentre parliamo arpeggia la chitarra sulle note di «Keep Me Hanging On» dei Vanilla Fudge, capolavoro interpreta­to in Italia dai Ribelli. Ma è il Beat a rimanergli nell’anima: molti lo ricorderan­no sul palco del Teatro Romano e rinverdire i tempi della Piccola Liverpool. Il Piano Bar è oggi la sua terra di conquista: ogni mercoledì sera si esibisce al Piper, in quello che negli anni sessanta era un tempio del Beat. Ci congeda con un aneddoto: «Lo scorso anno ero in vacanza a Campitello di Fassa. Chiesi al direttore dell’albergo di poter suonare il piano. Nello stesso hotel soggiornav­a Stefano Bollani: è finita che ci siamo messi a suonare a quattro mani Do you Know What It Means To Miss New Orleans. Non mi sono mai sentito un profession­ista, ma un dilettante, nell’accezione più autentica del termine, vale a dire il divertimen­to. Gli anni del Beat? Li vivo in allegria senza la malinconia legata alla nostalgia». Ci salutiamo, in strada su un autobus campeggia una pubblicità che cattura il nostro sguardo: quattro ragazzi, la parola «generazion­e» seguita dal nome di un noto centro commercial­e. Pensiamo alla nostra chiacchier­ata con «Marietto». Lui non avrà nostalgia, noi ne siamo già preda.

Gli anni del Beat? Li vivo in allegria senza la malinconia legata alla nostalgia

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Il suo gruppo

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