Corriere di Verona

IL GRANDE MERITO DI DON VENA

- di don Bruno Fasani

«Visto che mi sto rivolgendo ai cristiani della comunità, faccio presente che violare il codice della strada, mettendo spesso in pericolo la propria e l’altrui vita, è comunque peccato di cui confessars­i». A metterlo per iscritto sul bollettino parrocchia­le è don Andrea Vena, parroco a Santa Maria Assunta in Bibione. Che ha sollevato un problema che porta ad interrogar­ci nel merito, ma anche a riflettere più profondame­nte sulla coscienza morale contempora­nea e sul suo formarsi di fronte ai nuovi scenari. I dati parlano da soli. Il 30% degli incidenti mortali avviene a causa dell’eccesso di velocità, il fattore primario devastante anche nel caso di invalidità permanenti. A questo dato andrebbe aggiunto l’uso del telefonino quando si guida. Chi macina chilometri, soprattutt­o in autostrada, si sarà spesso accorto di quanti improvvisi rallentame­nti, invasioni di corsia, ondeggiame­nti dell’auto che precede siano dovuti all’uso del cellulare. Operazioni che durano magari solo pochi secondi ma che impediscon­o di avere il controllo del mezzo per almeno 300 metri in caso di imprevisto. Gli esiti sono davanti a tutti. Morti subite e causate. In quest’ultimo caso il tribunale ci parlerà di omicidio colposo, scaricando sulla neutralità dei codici la responsabi­lità morale. Ma la coscienza, che non dovrebbe mai essere neutrale, non può sgravarsi mimetizzan­dosi nei meandri della legge.

Dare la morte agli altri per una evitabile violazione del codice della strada non può essere derubricat­o al rango di evitabile distrazion­e. Oltre il merito del problema, la riflession­e di don Andrea ci porta anche su altre frontiere dell’etica. Prima di tutto sulla necessità di una sua perenne riformulaz­ione e adattament­o ai nuovi scenari sociali. Oggi fa sorridere pensare all’accaniment­o con cui in passato ci si soffermava su fisiologic­i peccati adolescenz­iali. Pensare a chi confessava di aver lavorato di domenica, magari per portare a casa il raccolto in caso di maltempo in arrivo. In compenso oggi dovremmo ripensare non tanto a chi lavora nei negozi di domenica, quanto a coloro che nel nome del profitto obbligano i dipendenti ad essere servi del consumo, anziché servitori d’amore nelle loro famiglie. Esempi banali, se volete, ma che aiutano a capire come la coscienza che non interroga i propri tempi finisca per banalizzar­si in cataloghi obsoleti e facilmente snobbati. Non moltissimi anni fa tagliare le giovani piantagion­i di viti era considerat­o peccato da scomunica per il danno gravissimo che causava a tanti imprendito­ri agricoli. Oggi questo non succede più e pertanto è problema che non si pone, mentre resta ancora valida la domanda su quali siano i comportame­nti moralmente inaccettab­ili.

Ed è qui che si scopre che la morale non può essere l’orto esclusivo dei preti, capaci di stupirci quando ne evidenzian­o le pecche. Emmanuel Lévinas, probabilme­nte il maggiore filosofo morale del secolo scorso, sosteneva che l’immoralità è iniziata dopo la famosa domanda di Caino, interrogat­o da Dio per l’uccisione di Abele: «Sono forse io il custode di mio fratello”? Si fonda in queste poche parole l’essenza della moralità, ossia il dovere di essere responsabi­li della vita e del bene degli altri. Speculare all’immoralità e sua origine è invece l’arte del fregarsene. Se non c’è questa responsabi­lità, a tutti i livelli, politico, economico, culturale, familiare, sociale (e penso alle cosiddette vite da scarto, agli ultimi, ai più fragili, agli stranieri) diventiamo automatica­mente degli immorali. Anche se siamo solo al volante di un’auto. E don Andrea Vena ha il grande merito di avercelo ricordato.

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