IL GRANDE MERITO DI DON VENA
«Visto che mi sto rivolgendo ai cristiani della comunità, faccio presente che violare il codice della strada, mettendo spesso in pericolo la propria e l’altrui vita, è comunque peccato di cui confessarsi». A metterlo per iscritto sul bollettino parrocchiale è don Andrea Vena, parroco a Santa Maria Assunta in Bibione. Che ha sollevato un problema che porta ad interrogarci nel merito, ma anche a riflettere più profondamente sulla coscienza morale contemporanea e sul suo formarsi di fronte ai nuovi scenari. I dati parlano da soli. Il 30% degli incidenti mortali avviene a causa dell’eccesso di velocità, il fattore primario devastante anche nel caso di invalidità permanenti. A questo dato andrebbe aggiunto l’uso del telefonino quando si guida. Chi macina chilometri, soprattutto in autostrada, si sarà spesso accorto di quanti improvvisi rallentamenti, invasioni di corsia, ondeggiamenti dell’auto che precede siano dovuti all’uso del cellulare. Operazioni che durano magari solo pochi secondi ma che impediscono di avere il controllo del mezzo per almeno 300 metri in caso di imprevisto. Gli esiti sono davanti a tutti. Morti subite e causate. In quest’ultimo caso il tribunale ci parlerà di omicidio colposo, scaricando sulla neutralità dei codici la responsabilità morale. Ma la coscienza, che non dovrebbe mai essere neutrale, non può sgravarsi mimetizzandosi nei meandri della legge.
Dare la morte agli altri per una evitabile violazione del codice della strada non può essere derubricato al rango di evitabile distrazione. Oltre il merito del problema, la riflessione di don Andrea ci porta anche su altre frontiere dell’etica. Prima di tutto sulla necessità di una sua perenne riformulazione e adattamento ai nuovi scenari sociali. Oggi fa sorridere pensare all’accanimento con cui in passato ci si soffermava su fisiologici peccati adolescenziali. Pensare a chi confessava di aver lavorato di domenica, magari per portare a casa il raccolto in caso di maltempo in arrivo. In compenso oggi dovremmo ripensare non tanto a chi lavora nei negozi di domenica, quanto a coloro che nel nome del profitto obbligano i dipendenti ad essere servi del consumo, anziché servitori d’amore nelle loro famiglie. Esempi banali, se volete, ma che aiutano a capire come la coscienza che non interroga i propri tempi finisca per banalizzarsi in cataloghi obsoleti e facilmente snobbati. Non moltissimi anni fa tagliare le giovani piantagioni di viti era considerato peccato da scomunica per il danno gravissimo che causava a tanti imprenditori agricoli. Oggi questo non succede più e pertanto è problema che non si pone, mentre resta ancora valida la domanda su quali siano i comportamenti moralmente inaccettabili.
Ed è qui che si scopre che la morale non può essere l’orto esclusivo dei preti, capaci di stupirci quando ne evidenziano le pecche. Emmanuel Lévinas, probabilmente il maggiore filosofo morale del secolo scorso, sosteneva che l’immoralità è iniziata dopo la famosa domanda di Caino, interrogato da Dio per l’uccisione di Abele: «Sono forse io il custode di mio fratello”? Si fonda in queste poche parole l’essenza della moralità, ossia il dovere di essere responsabili della vita e del bene degli altri. Speculare all’immoralità e sua origine è invece l’arte del fregarsene. Se non c’è questa responsabilità, a tutti i livelli, politico, economico, culturale, familiare, sociale (e penso alle cosiddette vite da scarto, agli ultimi, ai più fragili, agli stranieri) diventiamo automaticamente degli immorali. Anche se siamo solo al volante di un’auto. E don Andrea Vena ha il grande merito di avercelo ricordato.