UN COLPO AL TABÙ DEI PARTITI
La sentenza sul ricorso presentato dall’attivista padovana Maria Elena Martinez, che si era ritrovata esclusa dalle «parlamentarie» indette dal Movimento 5 Stelle nonostante avesse regolarmente presentato la sua candidatura – senza ottenere alcuna spiegazione né prima né poi – è destinata a fare, se non storia, chiarezza. E trasparenza.
Più di quella evocata ma poco praticata dai partiti, Movimento 5 Stelle incluso. E al di là dello specifico caso e dello specifico partito. Perché mette il dito su una piaga aperta fin dall’approvazione dell’articolo 49 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
La contraddizione è servita: la politica ha bisogno dei partiti per essere democratica, ed essi sono lo strumento della democrazia parlamentare. Ma la democrazia interna ai partiti dov’è?
Non c’è, appunto: perché essi stessi hanno sempre rifiutato di normare, in qualsiasi modo, la propria vita interna.
Abbiamo la democrazia dei partiti, ma non la democrazia nei partiti. Tanto che negli anni si è assistito persino a indecorose commedie in cui i titolari di un nome e di un simbolo scappavano con la cassa o li vendevano al miglior offerente, per garantirsi un posto e una carriera.
Tornando al caso in questione, la sentenza è chiarissima: ha dato torto alla ricorrente, perché i partiti sono associazioni private, in cui decide il capo, e i pochi scelti dal capo, chi saranno i candidati.
Ma almeno alcuni – di destra come di sinistra, da Fratelli d’Italia al Partito Democratico, passando per la Lega – celebrano congressi ed eleggono i propri leader: qualcuno, come il Pd, dando persino il voto agli elettori e ai simpatizzanti. Altri non fanno nemmeno questo. Non ha mai nemmeno fatto finta di farlo Forza Italia, il primo vero partito personale di massa. Non l’hanno fatto i progressisti di Liberi e Uguali, che il leader l’hanno preso direttamente dalla seconda carica dello stato e si sono accontentati di una assemblea.
Non l’ha mai fatto, però, nemmeno il Movimento 5 Stelle, che pure si pretende maggiormente innovatore su questo piano. In parte lo è stato davvero, aprendosi alle candidature dal basso: ma il fatto che il numero di clic sia drammaticamente basso, al punto da rendere risibile evocare il concetto alto ed ampio di democrazia, e soprattutto il fatto che in ultima istanza decida non si sa nemmeno chi (e l’oscurità è la massima prerogativa del potere), rende la questione posta dal giudice che ha esaminato il caso ancora più centrale e ricca di conseguenze. Perché, pur dicendo in sostanza che la leadership di un partito può fare quello che vuole (ma qui chi la rappresenta? Di Maio? Grillo? Casaleggio?), e quindi nessuno può pretendere alcunché, tanto meno trasparenza, nota la «evidente distanza da canoni minimi di democrazia interna» dello statuto del M5S. Altro che «uno vale uno»!
Bene che il giudice si sia fermato lì, senza avanzare proposte: sarebbe pericoloso se la democrazia la imponessero i giudici. Bene però anche che si dica una parola di verità, in punta di diritto, sulla poca democrazia interna dei partiti. E bene che la si dica in specifico sul M5S: che da subito ha posto lodevolmente il problema della partecipazione, anche con formule nuove, ma poi si è ritrovato a praticare non più democrazia, ma, paradossalmente, meno – tutto è deciso dall’alto e persino da fuori (la Casaleggio è un organo esterno, seppure evidentemente collegato – e una azienda con fini di lucro, per giunta).
Ma resta aperta una domanda che è un macigno per l’esistenza stessa della democrazia: è possibile che i partiti, che sono lo strumento per eccellenza della partecipazione democratica, possano permettersi di essere, nella loro vita interna, meno democratici di una bocciofila o di un consiglio parrocchiale? Può il mezzo essere così palesemente distante dal fine?
A questa domanda, la risposta non c’è ancora. Sull’onda dell’entusiasmo per le primarie, qualcuno aveva pensato di proporle per tutti. Poi anche il partito che le aveva introdotte, ha smesso di usarle, e la cosa è finita lì. Nessuno, pare, ha interesse a risollevare il problema. Che resta lì: una ferita aperta sulla democrazia.