No al part-time, gerarchie rigide Con il «mianzi» sono guai sicuri
Gli uomini d’impresa cinesi la vedono così: quando ChemChina (quelli che si sono comprati la Pirelli, per intendersi) si trovò a gestire in patria un massiccio esubero di ingegneri, creò da zero una catena di ristoranti specializzati in noodles da asporto per ricollocare il personale qualificato in eccesso. E nessuno fiatò.
D’accordo, qui non potrebbe mai succedere: abbiamo lo Statuto dei lavoratori, le Rsu e i sindacati, il giudice del lavoro a cui ricorrere contro i demansionamenti. Però l’esempio può tornare utile per comprendere le abissali differenze di cultura, mentalità e approccio operativo che possono esplodere quando, come avviene sempre più spesso, una società cinese e il suo management entrano da padroni in una fabbrica occidentale.
In scala ridotta, è già accaduto alla Wanbao Acc di Mel (Belluno), erede della gloriosa Zanussi Elettromeccanica, dal dicembre 2014 entrata nell’orbita del colosso cinese Wanbao: «Vorremmo introdurre il part-time - raccontava nell’agosto scorso al Corriere del Veneto il sindacalista della Fim Cisl Bruno Deola - ma sarà dura». Perché dura? «Questione di mentalità, per loro è inconcepibile, in Cina la gente lavora tutto il giorno». Poi, si sa, anche i laboriosi cinesi sanno adattarsi alle convenienze del luogo: adesso che ci sono di mezzo 130 esuberi dichiarati e bisogna mandare a casa la gente, operazione che non risulta facile come stando a Pechino o a Shenzhen, è stata l’azienda stessa a proporre ai dipendenti di aderire al part-time orizzontale di 4 ore al giorno. Una vergogna, per i ritmi cinesi, ma se può aiutare a evitare provvedimenti peggiori...
Un’altra delle tipiche difficoltà riscontrate nella quotidianità del lavoro sta in quella cosa che i cinesi chiamano «mianzi» e che noi, alla grossa, potremmo tradurre con «faccia». Lo spiega bene Francesco Boggio Ferraris, direttore della scuola di formazione permanente della Fondazione Italia Cina, che per mestiere si occupa esattamente di questi aspetti: «Nella cultura cinese “mianzi” è la faccia, nel senso metaforico del rispetto che si guadagna presso gli altri. Per capirci, sul lavoro è un errore tremendo far perdere la faccia al proprio capo, ne andrebbe della sua reputazione e per loro è una questione rilevantissima. Questo crea dei problemi di comunicazione non indifferenti in azienda: se il dipendente italiano non comprende questo concetto, farà una fatica terribile a decifrare gli atteggiamenti del manager cinese e potrebbero verificarsi degli equivoci anche gravi».
Nel luogo comune occidentale, gli uomini d’affari di Pechino e dintorni vengono dipinti grosso modo così: cerimoniosi, formali, sorridenti... e poi ti fregano. Un ritratto grossolano, che Boggio Ferraris mette a fuoco in questo modo: «Il manager classico che arrivava dalla Cina si era formato sui concetti fondamentali del taoismo (l’armonia), del confucianesimo (la pazienza e il rispetto rigidissimo delle gerarchie) e dell’arte della guerra (la resilienza innanzitutto). A questo trittico spiega -, la modernità ha aggiunto un quarto elemento: sarà una parola brutta da dire,
L’esperto I loro manager? Pazienti, resilienti e ora anche aggressivi
Sul lavoro è un errore letale far perdere la faccia al proprio capo
ma è l’aggressività. Nella fase negoziale, vanno dritti all’obiettivo, senza tentennamenti».
Per tutti questi motivi messi insieme, accade spesso che gli imprenditori cinesi vengano visti all’inizio come i salvatori della patria - è il caso delle numerose aziende italiane e venete che versavano in cattive condizioni e sono state risollevate dai capitali esteri - e poi si rivelino delle grandi delusioni. «Se ti compra un conglomerato colossale come Wanda Group - dice ancora Boggio Ferraris - e tu sei una piccola realtà del Nordest italiano, c’è il caso che, nella loro scala delle priorità, tu occupi la 750esima posizione».
È il caso di prendere nota e cominciare ad attrezzarci. Perché la Nuova Procond di Longarone, appena passata sotto il controllo del gruppo H&T, è la trentanovesima azienda nostrana acquisita da capitali cinesi. E anche perché, in Veneto, sono attive ormai più di settemila ditte grandi e piccole a conduzione cinese. Un fenomeno impossibile da ignorare.