LUCI A SAN PANCRAZIO IL PORTO CHE NON CHIUDE
Sarebbe stato un peccato se, accanto alle tante botteghe e attività artigianali che non hanno retto il passo dei tempi, Porto San Pancrazio avesse perso anche la sua storica squadra di calcio. All’inizio di quest’anno, pareva che gli ottant’anni di storia del club fossero arrivati al capolinea. Poi è spuntato Adelino Perbellini, agricoltore di ottant’anni, che ha deciso di caricarsi sulle spalle quella squadra dove da giovane aveva militato. «L’ho presa in mano, perché non volevo rassegnarmi a vedere i cancelli chiusi», spiega.
Il post in assoluto più commentato sulla pagina Facebook «I disagi del Porto» non è sui camion in uscita su via Galilei dallo scalo merci di Porta Vescovo (problema pure molto sentito) né su ricorrenti episodi di inciviltà (deiezioni canine sui marciapiedi, bottiglie e sporcizia nelle aree verdi), ma una foto dell’insegna murale di un vecchio fruttivendolo di via Tommaso Campanella, Spinamano, chiuso da qualche anno. «Chi si ricorda?», è la domanda che apre lo scrigno della memoria. «Lì prima c’era il bar al Gambero». «E lì vicino la latteria della Fina». «E lì di fronte c’era anche la macelleria di Gianni». «E Lavagnoli, che riparava le tv». «E la mitica signora Fochesato col negozio di scarpe». «E il negozietto di Scampoli della Bruna e Vittorio». «E gli alimentari da Garzon». «O la mitica pasticceria Lamberti». «La parrucchiera Mata». «La lavanderia Mortani chi se la ricorda?». «E la Elsa merceria?». Avanti così, con decine e decine di contributi.
Per le sue caratteristiche geografiche, San Pancrazio è sempre stata un’isola a sé stante all’interno della città di Verona. Si chiama «Porto» perché un tempo, per raggiungerlo dal Pestrino, c’era in servizio un barcaiolo che faceva servizio da una sponda all’altra dell’Adige con la zattera: l’ultimo – prima della costruzione del ponte negli anni Sessanta - si chiamava Cesare. Da Borgo Venezia, invece, c’era un passaggio a livello, da tutti chiamato «La Piccola», oltre al celebre «Buso del Gato», il sottopasso pedonale con la stazione di Porta Vescovo. Interventi recenti, come il sottopasso automobilistico che porta su viale Venezia e l’ampliamento del ponte del Pestrino, rifatto negli anni Duemila e intitolato a Mariano Rumor, hanno fatto del Porto luogo di passaggio (e di
Paolo Piva C’è molta meno vita di un tempo, qui era come un paese, con la gente molto unita Adelino Perbellini Ho preso la squadra perché non volevo vedere i cancelli chiusi
traffico) più di quanto i suoi residenti gradiscano.
Anche quel brulicare di vita di quartiere che molti ricordano con nostalgia non c’è più. Sono rimasti due panifici, resiste un fruttivendolo, c’è un piccolo supermercato discount, poco altro. I bar chiudono presto, quasi tutti sono presi in gestione dai cinesi. C’è una nuova biblioteca comunale e un centro anziani, ma la signora Clementina che ci lavora lamenta uno scarso coinvolgimento della popolazione locale: «Se facciamo un incontro sulle truffe, la sala piena. Ma appena proviamo a proporre qualcosa di più culturale, niente…». «C’è molta meno vita di un tempo – riconosce Paolo Piva, che ha sempre vissuto qui e oggi gestisce un bed&breakfast – Qui era come un paese, con la gente molto unita».
Al Porto, venivano ad abitarci gli operai, quelli delle Officine Ferroviarie prima, della Tiberghien e delle acciaierie Galtarossa poi. È stata una delle zone più bersagliata dai bombardamenti nella seconda guerra mondiale, con la strage del 20 marzo 1944 dove morirono in 78. «Fino agli anni Settanta, giocavamo ancora tra le macerie della guerra – ricorda Piva –. Era un quartiere popolare, con anche situazioni problematiche. I ragazzi delle bande chiudevano le strade per fare le corse in moto. Giocando a pallone in parrocchia, il curato dava rigore ogni volta che qualcuno bestemmiava, e accadeva spesso. Dei miei compagni di scuola, la metà è finita in carcere o in riformatorio. Quel giro di piccola malavita locale però impallidisce al confronto con quella che portò l’eroina negli anni Ottanta».
Oggi, il Porto è di fatto un tranquillo quartiere residenziale, che viene scelto dagli studenti universitari per la vicinanza a Veronetta, ma anche da giovani famiglie che solo qui possono sperare di trovare una casetta con giardino a prezzi ragionevoli, a contatto con la natura del Giarol Grande e del parco dell’Adige e a un quarto d’ora a piedi da piazza Bra. È il caso di Andrea Sellaroli, che insegna al liceo Montanari e vive qui da quattro anni con la compagna e i bambini. «Anni fa, lavoravo come portapizza allo Stadio e nessuno voleva fare consegne al Porto, per paura di perdersi – sorride lui –. La verità è che come posizione, è un quartiere ideale, c’è tanto verde. Come attività, invece è un po’ morto».
In attesa che si chiarisca il destino degli ex magazzini ferroviari, oggi abbandonati, per cui c’è il progetto di riconvertirli in una grande area sportiva, sarebbe stato un peccato se, accanto alle tante botteghe e attività artigianali che non hanno retto il passo dei tempi, il Porto avesse perso anche la sua storica squadra di calcio. All’inizio di quest’anno, pareva che gli ottant’anni di storia del Porto San Pancrazio fossero arrivati al capolinea. Troppi costi, troppi debiti, nessuno che se ne volesse far carico. Poi è spuntato Adelino Perbellini, che a ottant’anni compiuti continua a fare quello che ha sempre fatto nella vita, l’agricoltore. Da giovane, ha indossato anche lui - ruolo difensore - la casacca viola del Porto, quando nello storico impianto di via Asiago non c’era erba, ma solo polvere. E alla squadra è rimasto così legato che ha deciso di caricarsela sulle spalle. «L’ho presa in mano, perché non volevo rassegnarmi a vedere i cancelli chiusi - racconta l’oggi presidente -. Il calcio rappresenta un’alternativa per i giovani del mio quartiere. Il mio più grande dispiacere è stato vedere ragazzini perdersi e finire nel mondo della droga, anche se quelli di oggi mi sembrano più responsabili di un tempo». Con l’aiuto della Polisportiva Intrepida di Madonna di Campagna, il Porto San Pancrazio si è rimesso in piedi. «Abbiamo quattro squadre - spiega Perbellini - l’importante è adesso riuscire a fare un vivaio fatto bene». In passato da queste parti è fiorito più di un professionista, da Davide Bolognesi a Nicola Corrent, l’ultimo veronese a giocare nell’Hellas. Ma a Perbellini, per adesso, basta vedere che i fari del campo sono ancora accesi.