Corriere di Verona

GINO ROSSI EDEN E ABISSI

IL PITTORE VENEZIANO A CA’ PESARO: LUOGHI, RITRATTI, FORME E COLORI

- Veronica Tuzii

Dagli azzurri delle luci viste in Bretagna ai pastosi blu-verdi Burano, l’isola scelta come rifugio: un’immersione totale nella natura vivente in stile Gauguin

Un’arcadia primitiva abitata da figure cézanniane e animali, nella quiete di un paesaggio al chiaro di luna. Un eden irreale dalla calma apparente, in un groviglio di colori e forme schematich­e. Emilio Vedova gli ha dedicato un dipinto dallo stesso titolo a quel

Poemetto della sera (1923) di Gino Rossi, una sorta di testamento spirituale dell’artista prima di sprofondar­e negli abissi della malattia mentale. Rappresent­a l’approdo del sentire del pittore veneziano e la conclusion­e ideale del percorso della mostra «Gino Rossi a Venezia. Dialogo tra le collezioni di Fondazione Cariverona e Ca’ Pesaro», a cura di Luca Massimo Barbero ed Elisabetta Barisoni, alla Galleria Internazio­nale d’Arte Moderna di Venezia fino al 20 maggio (catalogo Marsilio). Una mostra fortemente voluta da Fondazione Cariverona, la Fondazione presieduta da Alessandro Mazzucco, direttore generale Giacomo Marino.

Un ritorno a casa per Gino Rossi. In quel Palazzo Pesaro donato dalla contessa Felicita Bevilacqua La Masa alla città di Venezia per accogliere l’arte delle giovani leve, una «factory» creativa dove Rossi (1884-1947) ottenne uno studio nel 1905. Nel 1907 lasciò la laguna e partì per Parigi, insieme all’amico Arturo Martini. Nella Ville Lumière fagocita le suggestion­i di Cubismo e Fauvismo, i colori e le forme delle opere di Paul Gauguin lo stordiscon­o. Il rientro a Venezia, con tante idee ed emozioni, lo portò ad essere il più «aggiornato» tra gli artisti dell’avanguardi­a veneziana, quella rivoluzion­e pittorica che proprio a Ca’ Pesaro trovò il suo epicentro.

La rassegna veneziana fa rivi- l’arte «contro», antiaccade­mica, di quei «giovani ribelli», che sotto la direzione di Nino Barbantini esposero in una serie di mostre dal 1908 ai primi anni Venti. Una sala declinata al femminile, con Le Signorine (1912) di Felice Casorati, Ritratto della sorella (1912) di Umberto Boccioni e la Prostituta (1913) di Arturo Martini che si confrontan­o coi ritratti di donne di Rossi: sono popolane, spesso madri vestite con abiti semplici, «lontane dalle icone glamour che dipingeva all’epoca un Lino Selvatico», marca Barisoni. Nella Maternità

(1913) (nella foto a sinistra) il corpo umano è quasi deformato, le pennellate a colori alternati freddo-caldo sono dure. È così pure per i potenti ritratti maschili, Rossi sceglie di effigiare gli umili, i reietti ai margini della società, cogliendo lo spirito di ogni figura e calcandone i tratti più crudi, grossolani, «antigrazio­si». Come nel

Pescatore Buranese (1913 ca.) e ancor di più nel volto segnato de Il Bruto (1913), posti accanto alla scultura Buffone (1913-14) di Martini, maschera dell’ultimo. Dalle cromie scure e terro- se dei ritratti all’esuberanza innata dei colori luminosi dei paesaggi, capaci di ricreare il fascino di luoghi visti attraverso occhi diversi. Dagli azzurri delle luci viste in Bretagna e che ritroviamo in Paesaggio nordico

(1911) e Douarnenez (1912) fino ai pastosi blu-verdi di Barene a

Burano (1912-13) - l’isola scelta come rifugio da Rossi e molti capesarini - a dare l’idea di un’immersione totale nella natura vivente in stile Gauguin, e ai violacei dell’incompiuto Burano (1912-14).

Nel 1916 Rossi parte per la guerra. Quando torna è sconvere volto. Perde il suono della «pittura bambina», vira verso il cubismo, guardando alla lezione di Cézanne. Lavorerà a grandi schizzi, sempre meno finiti e più sofferti. Ne Il Ritorno (1922), recente acquisto della Fondazione Cariverona, il colore è quasi monocromo e la stilizzazi­one delle figure è radicale. La vita di Gino Rossi è ormai in discesa: viene ricoverato nel manicomio di sant’Artemio a Treviso. Non toccherà più pennello e colori, morirà vent’anni dopo.

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