Corriere di Verona

Il sindaco Variati «Calenda? Non mi piace»

Il sindaco di Vicenza: «Serve una nuova partecipaz­ione Calenda? Non mi piace e i grillini sanno solo di dire no»

- di Giovanni Viaforaa

Sindaco Achille Variati, come si vedono da lassù, dal campanile dell’extrema Thule democratic­a del Veneto, la sua Vicenza, i resti del Pd?

«Cosa vuole, io sono uno che lavora a testa bassa dodici ore al giorno sui problemi concreti della mia comunità. Perché essere amministra­tori oggi significa essere uomini del territorio. Voglio dire: se mi parla della mia città penso di poterle dare una risposta su ogni cosa; ma quando devo entrare nei vicoli della politica-politica non mi sento addosso le scarpe adatte».

Non è che dice così perché, come lei stesso ha dichiarato di recente, «non ha mai fatto parte della corte di Renzi»?

«Voglio subito dirle una cosa. Se mi chiedesse chi è il più grande innovatore della politica degli ultimi 20 anni, le rispondere­i proprio Matteo Renzi. E il tempo lo confermerà: i risultati che ha raggiunto nel sociale e nell’economia sono stati enormi...».

Allora proviamo a girare la questione: lei non ha fatto parte della «corte», però Renzi non si è mai troppo curato del territorio. Giusto per dire: durante l’ultima lunga notte del delle liste elettorali, al Nazareno, il segretario veneto del partito, Bisato, è stato tenuto fuori dalla porta...

«Questa è sicurament­e una cosa che non è andata. È stata la legge a consentire a tutti i partiti di appaltare ad un’oligarchia ristretta la scelta dei candidati. Però è vero, la direzione non ha voluto firme, nè ha coinvolto il territorio. Ma, glielo dico con sincerità, per noi non sarebbe andata diversamen­te. Le ragioni di questa sconfitta netta sono altre...». Quali allora?

«Una volta i partiti, quelli che non esistono più, e quelli dei quali io sono figlio, erano luoghi di discussion­e, dove le tesi nascevano dal pensiero di molti. Oggi non è così: è il leader che pensa e indica la strada. E questo è stato Matteo. La sua idea era proprio quella di portare dentro al governo e dentro al partito il meccanismo dell’uomo solo, ma le cose non hanno funzionato. La sua cerchia è diventata una corte, sempre più ristretta. E sa chi è il cortigiano? Quello che dice al suo capo che va sempre tutto bene...».

Per cui...

«Ha cominciato a raccontare al Paese, giorno dopo giorno, un’idea di risultati e di sviluppo che magari c’era nelle statistich­e che gli presentava­no. Ma di certo non era quella percepita. C’è stato un discostame­nto tra quello che lui diceva e ciò che la gente sentiva. Fino al punto da farlo apparire arrogante. E questa è una cosa che nella psicologia di massa non è perdonata».

Il crollo di Renzi uomo-partito fino a che punto trascinerà il Pd? Anzi, ancora più radicalmen­te, lei pensa che il Pd abbia ancora futuro?

«Sì, io penso che ce l’abbia. Rimane un partito di tanti iscritti, molti espression­e viva della società, spesso impegnati nel mondo del volontaria­to. Il problema è che hanno dato tutti un contributo molto modesto: hanno applaudito, ma hanno parlato poco. Però è dal partito che si deve ripartire».

E se ora Renzi fondasse il suo? Stile Macron.

«Sarebbe una scelta sbagliata e conto che non la faccia. Sarebbe una scelta per altro che non darebbe risultati. Lui deve riuscire invece a fare un passo di lato per consentire di nuovo che riprenda il dibattito».

Ripartire dal partito, diceva. Ma quale? Il Pd va forte nelle città e tra la borghesia, mentre perde terreno tra gli operai e i giovani. E intanto Eugenio Scalfari afferma che l’unico partito di sinistra oggi sono proprio i grillini...

«Ma che cosa vuol dire essere di sinistra oggi, in un tempo post-ideologico? Io penso che debba voler dire ancora lavorare sul tema dell’uguaglianz­a. Cioè fare in modo che ci sia sviluppo, senza che nessuno resti indietro. E il Pd ha il dna per fare questo. Ma l’uguaglianz­a è tutt’altra musica rispetto all’assistenzi­alismo. Per cui non sono d’accordo nel pensare che i Cinque stelle incarino meglio alcune tematiche della sinistra storica. A me, per dire, il reddito minimo sa tanto di assistenzi­alismo. La risposta dovrebbe essere un’altra: io ti aiuto, ma tu mi dai delle risposte. È la mia linea sui richiedent­i asilo, per esempio. Su cui sono radicale».

Ma lei pensa che con i Cinque stelle si possa comunque dialogare? Insomma, il Pd fa- rebbe bene ad appoggiare un governo Di Maio?

«Io li conosco e conosco quello che fanno: bloccano tutti i lavori, dicono no all’alta velocità. A me non pare proprio che ci siano le condizioni per un’alleanza stabile con loro».

Quindi cosa accadrà ora? «Mattarella farà tutti i tentativi del caso. Ad ogni modo un risultato chiaro le urne l’hanno dato. I vincitori ci sono e sono due grandi forze anti-sistema. L’intesa devono trovarla loro. Tuttavia se fossi uno della Lega o dei Cinque stelle prima di brindare ci penserei un po’: i voti li hanno presi più grazie al risentimen­to, che grazie alla speranza. Ma per governare serve speranza e se non sei in grado di darla, l’esperienza non dura».

In Veneto però la Lega stravince. Con il Pd che non tocca più palla. Qualcuno dice che moriremo leghisti. O meglio, zaiani. È così?

«Nessuno mai riuscirà a vincere contro Zaia parlando la sua lingua, il suo vocabolari­o. E finora non c’è stato ancora nessuno in grado di presentars­i con idee diverse. Io spero in una nuova stella, che entri nel sentimento dei cittadini».

Intanto si parla del successore di Renzi. Si fanno già i nomi: Zingaretti, Chiamparin­o, Calenda. Qualcuno le scalda il cuore?

«Il Pd non ha bisogno di un leader domani mattina. Il leader deve venire fuori da una fase di grande partecipaz­ione, per cui ora chiunque abbia un’idea si faccia avanti. Di certo invece non deve venire fuori da un altro circolo chiuso di pochi personaggi romani».

Calenda no, quindi? «Calenda non mi piace»

Su Zaia Nessuno riuscirà a batterlo usando la sua lingua e il suo vocabolari­o

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