Corriere di Verona

LA CADUTA DELLE ÉLITE NELLE URNE

- di Luca Romano

Le elezioni politiche del 4 Marzo potrebbero aver rappresent­ato il requiem delle élite dirigenti di questo Paese e del loro meccanismo di produzione a mezzo di soggetti collettivi di rappresent­anza. E quello che è accaduto alle forze politiche di «sistema» potrebbe solo anticipare un processo simile per i grandi corpi intermedi della società e dell’economia. Il voto, infatti, non è leggibile se separato da quel che succede nel profondo del sentire popolare. L’invaso delle rappresent­anze, pensiamo a Confindust­ria, al sindacato confederal­e, alle organizzaz­ioni dei piccoli, come artigiani commercian­ti, profession­isti non solo aveva rappresent­ato il collante del ceto medio della prima Repubblica, ma in un certo qual modo aveva consentito l’affermazio­ne delle classi creative della seconda: l’impresa in rapporto conflittua­le e alla fine complement­are con il lavoro presiedeva alla produzione sociale di ricchezza attraverso una relazione di stabilizza­zione: più produttivi­tà, più posti di lavoro stabili, più investimen­ti e nuove assunzioni. Oggi questo modello appare non solo usurato ma completame­nte riconfigur­ato. L’accelerazi­one dell’innovazion­e nella stessa unità di tempo genera pochissimi buoni lavori e distrugge molte attività tradiziona­li. Sostiene la concentraz­ione della ricchezza e del controllo, ovvero del potere.

Fino alla crisi cominciata nel 2008 l’innovazion­e era sinonimo di crescita e benessere sociale; oggi semina angoscia nelle grandi categorie del lavoro tradiziona­le. Quasi più nessuno pensa al proprio lavoro come duraturo, i media sono traboccant­i di lavori che non esistono ancora, destinati a soppiantar­e quelli attuali. Ne deriva che un provvedime­nto come il jobs act, ha generato più il malessere diffuso di chi si è sentito indebolito che il consenso delle tutele crescenti per chi ne è stato beneficiat­o. L’impresa più efficiente e il lavoro più competente non irradiano messaggi positivi, le elites che li rappresent­ano non sono punti di riferiment­o.

Un altro processo che è arrivato a maturazion­e è stato l’individual­ismo che ha eroso dal basso, mentre la globalizza­zione lo faceva da «sopra», la grande fonte di coesione sociale che è stata la comunità locale, soprattutt­o per noi veneti. E’ stato il vero welfare ante litteram, in cui nessuno veniva lasciato solo e ognuno aveva un ruolo dentro una dimensione collettiva. Anche l’emigrazion­e dei veneti è stata comunitari­a. Quando salta la comunità locale, l’arrivo della crisi economica è devastante da almeno due punti di vista: ci si accorge che il welfare statale non ce la fa a riorganizz­are le provvidenz­e per i nuovi bisogni e il contrasto alle nuove povertà e soprattutt­o l’immigrazio­ne dell’emergenza (profughi, richiedent­i asilo) ce la si «sente addosso», davanti casa, senza meccanismi di accoglienz­a e di mediazione affidabili ed efficaci, si diffonde un allarme sociale generalizz­ato.

Ma veniamo al terzo problema che mette in ginocchio le élite: la disinterme­diazione. Che in sé potrebbe essere una buona cosa: sostituire con democrazia diretta, o almeno partecipat­iva la consunta democrazia rappresent­ativa. In realtà la disinterme­diazione sta producendo, tramite i social e le trasmissio­ni televisive di piazza, la tracimazio­ne della negatività sullo spazio pubblico. Che cosa significa? Che ogni discorso negativo si prende la scena. Nessuno parla di ciò che va bene, di chi fa il suo dovere, di chi è contento del suo lavoro, ma solo di disservizi, di sprechi, di corruzione; e così via. Lo spazio pubblico è moltiplica­tore virale di paure, di risentimen­to, di rabbia. Sembra la sigla della trasmissio­ne radiofonic­a «La Zanzara». Questa invasione negativa dello spazio pubblico ha distrutto ogni narrazione governante del Paese. E inevitabil­mente, la scena, dopo il voto è oggi in mano alle due forze politiche più disinterme­diatrici, accomunate dal loro perfino sprezzante rifiuto delle élite. Non è un caso che hanno vinto con due idee totalmente inconcilia­bili: la flat tax e il reddito di cittadinan­za. Possiamo parlare di fallimento delle elites dirigenti? Più esattament­e siamo al loro esauriment­o, senza una prospettiv­a per capire il cambiament­o. Per capire ci vogliono le elites del sapere, ma dove sono? Spesso anch’esse sembrano assecondar­e le pulsioni negative che hanno preso la scena.

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