LA CADUTA DELLE ÉLITE NELLE URNE
Le elezioni politiche del 4 Marzo potrebbero aver rappresentato il requiem delle élite dirigenti di questo Paese e del loro meccanismo di produzione a mezzo di soggetti collettivi di rappresentanza. E quello che è accaduto alle forze politiche di «sistema» potrebbe solo anticipare un processo simile per i grandi corpi intermedi della società e dell’economia. Il voto, infatti, non è leggibile se separato da quel che succede nel profondo del sentire popolare. L’invaso delle rappresentanze, pensiamo a Confindustria, al sindacato confederale, alle organizzazioni dei piccoli, come artigiani commercianti, professionisti non solo aveva rappresentato il collante del ceto medio della prima Repubblica, ma in un certo qual modo aveva consentito l’affermazione delle classi creative della seconda: l’impresa in rapporto conflittuale e alla fine complementare con il lavoro presiedeva alla produzione sociale di ricchezza attraverso una relazione di stabilizzazione: più produttività, più posti di lavoro stabili, più investimenti e nuove assunzioni. Oggi questo modello appare non solo usurato ma completamente riconfigurato. L’accelerazione dell’innovazione nella stessa unità di tempo genera pochissimi buoni lavori e distrugge molte attività tradizionali. Sostiene la concentrazione della ricchezza e del controllo, ovvero del potere.
Fino alla crisi cominciata nel 2008 l’innovazione era sinonimo di crescita e benessere sociale; oggi semina angoscia nelle grandi categorie del lavoro tradizionale. Quasi più nessuno pensa al proprio lavoro come duraturo, i media sono traboccanti di lavori che non esistono ancora, destinati a soppiantare quelli attuali. Ne deriva che un provvedimento come il jobs act, ha generato più il malessere diffuso di chi si è sentito indebolito che il consenso delle tutele crescenti per chi ne è stato beneficiato. L’impresa più efficiente e il lavoro più competente non irradiano messaggi positivi, le elites che li rappresentano non sono punti di riferimento.
Un altro processo che è arrivato a maturazione è stato l’individualismo che ha eroso dal basso, mentre la globalizzazione lo faceva da «sopra», la grande fonte di coesione sociale che è stata la comunità locale, soprattutto per noi veneti. E’ stato il vero welfare ante litteram, in cui nessuno veniva lasciato solo e ognuno aveva un ruolo dentro una dimensione collettiva. Anche l’emigrazione dei veneti è stata comunitaria. Quando salta la comunità locale, l’arrivo della crisi economica è devastante da almeno due punti di vista: ci si accorge che il welfare statale non ce la fa a riorganizzare le provvidenze per i nuovi bisogni e il contrasto alle nuove povertà e soprattutto l’immigrazione dell’emergenza (profughi, richiedenti asilo) ce la si «sente addosso», davanti casa, senza meccanismi di accoglienza e di mediazione affidabili ed efficaci, si diffonde un allarme sociale generalizzato.
Ma veniamo al terzo problema che mette in ginocchio le élite: la disintermediazione. Che in sé potrebbe essere una buona cosa: sostituire con democrazia diretta, o almeno partecipativa la consunta democrazia rappresentativa. In realtà la disintermediazione sta producendo, tramite i social e le trasmissioni televisive di piazza, la tracimazione della negatività sullo spazio pubblico. Che cosa significa? Che ogni discorso negativo si prende la scena. Nessuno parla di ciò che va bene, di chi fa il suo dovere, di chi è contento del suo lavoro, ma solo di disservizi, di sprechi, di corruzione; e così via. Lo spazio pubblico è moltiplicatore virale di paure, di risentimento, di rabbia. Sembra la sigla della trasmissione radiofonica «La Zanzara». Questa invasione negativa dello spazio pubblico ha distrutto ogni narrazione governante del Paese. E inevitabilmente, la scena, dopo il voto è oggi in mano alle due forze politiche più disintermediatrici, accomunate dal loro perfino sprezzante rifiuto delle élite. Non è un caso che hanno vinto con due idee totalmente inconciliabili: la flat tax e il reddito di cittadinanza. Possiamo parlare di fallimento delle elites dirigenti? Più esattamente siamo al loro esaurimento, senza una prospettiva per capire il cambiamento. Per capire ci vogliono le elites del sapere, ma dove sono? Spesso anch’esse sembrano assecondare le pulsioni negative che hanno preso la scena.