«Elezioni, i partiti non hanno capito la lezione»
L’ex commissario per la spending review Cottarelli domani a Padova: «Nord-Sud, frattura pericolosa»
VENEZIA «Con questo debito pubblico non saremo mai indipendenti, perché se Londra o Francoforte decidessero di speculare sui nostri titoli, finiremmo in bancarotta». Parla Carlo Cottarelli, l’ex commissario alla spending review, che domani a Limena parlerà di conti, promesse e post voto.
Cave canem! Attenti al cane, che sulla spesa pubblica azzanna, sembravano dire i vari partiti e partitini che, alla vigilia del voto, facevano a gara per contendersi i servizi del signor spending review: «Carlo Cottarelli ce l’abbiano noi». Ricorderete: durante un comizio il Cavaliere era arrivato fin pure a dichiarare che l’ex commissario straordinario «per la revisione della spesa» avesse già accettato di far parte del «suo» futuro governo. Ecco, non era vero (tanto che Cottarelli smentì a breve giro); ma alla fine che cosa contava?
L’importante era lasciare che l’altra mano rimanesse libera per dispensare promesse. E quindi altri debiti.
Cottarelli, domani lei sarà a Limena (Crowne Plaza, ore 9.45), dove terrà una lezione che si intitola proprio: «Ogni promessa è a debito». Dopo il voto di domenica, però, cosa dovremmo pensare?
«Che sono stati sconfitti i partiti che erano a favore di politiche più prudenti sui conti pubblici. In primis proprio il Pd, che per altro non è che volesse implementare una politica di correzione dei costi pubblici particolarmente aggressiva; ma quanto meno voleva mantenere il livello attuale di avanzo primario (cioè la differenza tra le entrare e le spese al netto degli interessi, ndr)...»
Ancora di più, allora, verrebbe da farle una domanda sociologica: perché sembra che in Italia il valore di un bilancio pubblico in regola non abbia dimora? Come non fosse una questione vitale...
«Questo problema è perfettamente coerente con l’osservazione empirica di un debito pubblico, quello italiano, che è il secondo più alto dell’Unione europea (dietro solo alla Grecia). Un debito del 132% del Pil vuol dire che in fondo a noi avere un debito pubblico basso non ci piace. Per cui non c’è dubbio, che esiste un problema di opinione pubblica».
E quindi cosa fare?
«Con il mio Osservatorio sui conti pubblici, aperto all’Università Cattolica di Milano, sto cercando di spiegare i rischi di un debito pubblico elevato. Che ci espone ancora ad una ripetizione di quello che è successo tra il 2011 e il 2012. Il punto è che noi, con un debito del genere, non saremo mai veramente indipendenti come Paese, perché nel momento in cui Londra o Francoforte decidessero di speculare sui nostri titoli, finiremmo in bancarotta».
Ma anche adesso?
«Non nell’immediato, perché ora, dopo il riassetto degli ultimi anni, ci vorrebbe la bomba atomica per scuotere i mercati. Ma già tra un anno, un anno e mezzo le cose potrebbero cambiare. Per cui sarebbe necessario tornare di corsa ad alzare le tasse e tagliare la spesa. Una nuova austerity. Come fece Monti...»
Il quale ora non può più uscire di casa. Metaforicamente parlando, si intende...
«E con lui la Fornero e tra poco anch’io, eh» (sorride).
Quindi non abbiamo imparato la lezione?
«Chiaramente no, altrimenti ne avremmo approfittato di questo periodo in cui c’è stata un po’ di ripresa economica».
Veniamo ai programmi, che lei ha studiato. Cinque stelle e reddito di cittadinanza: si può fare? E la stupisce la sovrapponibilità della mappa del voto con quella della disoccupazione: grillini «monopolisti» al Sud, dove è proprio più alta la sete di lavoro?
«Sì, probabilmente la connessione c’è. Quanto alla sostenibilità dico questo: tutto è fattibile in teoria, ma dipende dalle coperture. Il reddito di cittadinanza costa 17 miliardi. Se li prendo non li posso usare per istruzione e sanità. E neanche per ridurre il debito. I Cinque stelle, tra l’altro, sono stati gli unici che non ci ha comunicato gli obiettivi di deficit del debito pubblico. Per cui non sappiamo quanto vorranno spendere anno per anno».
E la flat tax del centrodestra?
«Con un’aliquota al 23 percento, costa 64 miliardi. Abbiamo dato per buona la considerazione che la copertura verrà attuata tramite l’eliminazione di tutti gli incentivi e degli sgravi. Altrimenti arrivavamo ad oltre 100 miliardi».
Ma dopo che tutti, prima del voto, l’hanno chiamata in causa, ora accetterebbe di entrare in un futuro governo. Da una parte o dall’altra?
«Se si vogliono fare cose che hanno senso sì. Altrimenti non sono disposto».
Di recente ha scritto un libro che si intitola «I sette peccati capitali dell’economia italiana». Uno di questi è il divario Nord-Sud. Secondo lei la politica autonomista delle regioni del Nord aumenta tale frattura o una fase federalista potrebbe essere positiva anche nell’economia di un risparmio di spesa?
«Le teoria direbbe che il modello federalista, dove si decentrano spese e tasse è quello in cui il cittadino vede più chiaramente che se vuole i servizi li deve pagare. Ma lavorando al fondo monetario ho visto di tutto. Non c’è in astratto un modello migliore dell’altro».
Le ultime elezioni ci consegnano anche un altro paradosso: la Lega dilaga in Veneto, ma se si uscisse dall’Euro, e si introducessero i dazi, forse sarebbero proprio le imprese venete le più penalizzate...
«Siamo entrati nell’Euro troppo presto forse, senza renderci conto che significava comportarsi in un certo modo. Chi vuole uscire dall’Euro intende svalutare per recuperare competitività; ma non si pensa che in parallelo i salari perderebbero ogni valore. Per cui tornare indietro, ora, sarebbe impossibile».
I programmi M5S è l’unico partito che non ci ha comunicato gli obiettivi di deficit del debito pubblico