WOLF FERRARI ARTE E BELLEZZA
PITTORE VENEZIANO E SPERIMENTATORE: SETTANTA OPERE NARRANO IL SUO GENIO
A Palazzo Sarcinelli a Conegliano fino al 24 giugno i paesaggi della memoria nell’esposizione curata da Giandomenico Romanelli e Franca Lugato
Cieli lividi striati e squarciati di bianco, movimenti di nubi sopra la vegetazione battuta dal vento, rischiarata da luci nordiche, fredde. Vedute inquiete di una natura straniante, paesaggi della memoria e dell’anima abitati da tronchi di betulle incombenti sull’osservatore e dai colori argentei, usciti da una tavolozza inedita, diversa da quella dei pittori coevi. Inizia simbolicamente con due tavolozze originali dell’artista la mostra «Teodoro Wolf Ferrari. La modernità del paesaggio», a Palazzo Sarcinelli, Conegliano, fino al 24 giugno, a cura di Giandomenico Romanelli e Franca Lugato, promossa da Comune di Conegliano e Civita Tre Venezie, catalogo Marsilio. La mostra indaga sulla natura d’instancabile sperimentatore del pittore veneziano e cosmopolita attraverso 70 lavori da gallerie e raccolte private, tra cui un grosso nucleo dalla Collezione Coin.
Teodoro Wolf Ferrari (18781945) si forma in un ambiente colto studiando tra Venezia e Monaco, entrando in contatto col simbolismo e il clima secessionista. Il corto circuito tra la prima formazione all’Accademia di Belle Arti di Venezia e la vivacità delle nuove grammatiche mitteleuropee innesca in Wolf Ferrari la ricerca di una sintassi propria. Sulle note del fratello compositore Ermanno, la rassegna accoglie il visitatore con «L’isola misteriosa» (1917), personale declinazione del magnetico dipinto di Arnold Böcklin «L’isola dei morti», che nella sua dimensione tenebrosa riassume l’ideale estetico del simbolismo tedesco. Accanto, una copia del capolavoro böckliniano di Otto Vermehren. Nella wolferrariana, incendiata da un teatrale cielo rosa, le spatolate denunciano un tratto pittorico libero e breve, veloce e incisivo. Un quadro moderno+++, i cui germi sono già nel precoce «Paesaggio con betulle e cipressi» (1907). Con la serie ispirata dalla brughiera nel Lunemburgo in Bassa Sassonia, dove il pittore si reca spesso per ritrarre la fioritura delle eriche, Wolf Ferrari è già lontano da quel verismo di stampo ottocentesco. Guardando «Lüneburger Heide» (1908) viene in mente Andrew Wyeth, il paesaggista americano tra i maggiori esponenti del realismo contemporaneo, con le sue atmosfere quasi post-apocalittiche che trasmettono solitudine e silenzio. Due sale vagliano il tema della tempesta. «Paesaggio Notturno», «Bufera», «Notte», «Danza macabra», tutte datate 1908, sono visioni di rocce sotto la luce lunare, ombre e nembi in cieli che anticipano l’astratto, rituali magici, inquietudini. Dalla stagione tedesca (intrigante il raffronto con Mario de Maria), a quella più vicina al sinteti- smo francese dei «giovani ribelli» di Ca’ Pesaro. Accanto a due «Stagioni» di Ugo Valeri e due oli dai pastosi blu-verdi di Gino Rossi, il fiabesco paravento (1912) in stile déco di Wolf Ferrari denota l’influenza dell’ideologia dei Nabis. La Grande Guerra è un crinale nella poetica di Wolf Ferrari. Si concentra sui soggetti prediletti di Monet - betulle, salici e glicini - mediati dalle ascendenze del paesaggismo klimtiano che lo conducono a luminosità nuove. Negli anni Venti lavora sulla fusione tra il colore e la luce, creando visioversione ni sospese che hanno al centro i riflessi dell’acqua, come ne «Il cipresso e le rose» (1919) o nel «Lago con cipressi e case» (1923). Sono luoghi dell’interiorità dell’artista. Dopo il ritiro a San Zenone degli Ezzelini, la sua arte s’immerge in un’emozionante natura dalle suggestioni neo-impressioniste, che vediamo nei panorami vibranti di colore del trevigiano e nella seducente «Sera di Settembre» (1933), in cui due pagliai dormono sotto una catalizzante fluorescente luna.