L’irruenza delle avanguardie e quei luoghi dell’anima
Romanelli: artista moderno. Lugato: cosmopolita
«Credo di esser rimasto in una sola cosa tradizionale: nell’amore che devono aver provato Beato Angelico, Botticelli, Ghirlandaio, nel dipingere le loro Madonne, con rispetto e con religione, con quella stessa religione che io sento quando mi permetto di dichiarare il mio amore al Paesaggio». Questa frase che appare come un manifesto di Teodoro Wolf Ferrari spiega l’approccio dell’artista nella ricerca degli stilemi di un’arte antiaccademica e una scelta di campo molto netta: quella di dedicarsi a una pittura dove le figure sono assenti. Troppo a lungo etichettato come autore «provinciale» di paesaggi veneti. Per questo la mostra allestita a Palazzo Sarcinelli (nell’anno del cinquecentenario dell’edificio) «vuole proporre la riscoperta di un artista internazionale - sottolinea Giandomenico Romanelli, curatore della rassegna insieme a Franca Lugato - , un artista che vive le esperienze più avanzate delle avanguardie europee, capace di cogliere ed elaborare in maniera originale le istanze e i fervori delle correnti più innovative. Un autore sottovalutato, che ha conosciuto momenti di eclissi dalla critica, ma molto amato dal pubblico e dai collezionisti. I musei non hanno saputo cogliere le ricchezze dell’artista, il valore della qualità della sua pittura e la profondità del suo pensiero».
L’internazionalità di Wolf Ferrari è già nel cognome. Il padre è il pittore tedesco August Wolf, la madre è la veneziana Emilia Ferrari. «Teodoro - spiega Franca Lugato, curatrice con Romanelli - , così come il fratello compositore Ermanno, sceglie di utilizzare il doppio cognome, a ribadire le sue radici mitteleuropee e lagunari. Ma al di là della curiosità riguardo al nome di famiglia, è la natura cosmopolita tradotta nella modernità della sua pittura a porci davanti ad un artista da ricollocare e ricondurre alla sua valenza europea».
Da Ciardi e Fragiacomo apprende l’importanza dell’equilibrio formale e strutturale dell’opera. «L’artista sente forte - spiega Romanelli - il simbolismo di Böcklin, irrobustisce il suo linguaggio con le influenze Nabis ed il secessionismo monacense e viennese... Wolf Ferrari “parte prima”, spicca per l’originalità tra i capepresente sarini. La sua era una pittura di tale qualità e impegno da aver pochi rivali sull’orizzonte di anni e di avventure culturali di straordinaria vivacità».
Non a caso lo storico direttore Nino Barbantini lo fa esordire a Ca’ Pesaro nel 1910 con una personale di 52 opere in due sale allestite e decorate da Teodoro con gusto viennese.
«Diventerà una mostra itinerante che andrà a Stoccolma e Hannover - marca Lugato - , perché Wolf Ferrari è molto apprezzato, sia in Italia sia all’estero. Avrà 15 anni densi di impegni ed esperienze». Nel 1912 partecipa all’esposizione a Palazzo Pesaro con il gruppo «l’Aratro», un movimento animato dal desiderio di riportare in voga l’Arts & Carfts ispirato alla «Scholle» monacense animata dall’amico Leo Putz, ed espone non solo dipinti ma anche opere di arte applicata. Sperimenta e sperimenta, mescola stili. Dal 1912 al 1938 Teodoro è in varie edizioni della Biennale; partecipa alla Secessione Romana nel ’13 e ’15 e alla Quadriennale di Roma. Nel 1924 venne inviato da Vittorio Emanuele III in Libia dove dipinge una serie di 32 opere a olio su soggetti coloniali. «Era un pittore militante, fino alla Prima guerra mondiale- ribadisce Lugato - . La guerra ha rappresentato un momento di cesura nella vita e nell’arte di Wolf Ferrari. Dagli anni Venti in poi sente sempre più il bisogno di isolarsi, e sceglie di ritirarsi a San Zenone degli Ezzelini ma anche qui, continua a sperimentare». Dal buio delle tenebre siamo passati al colore e ai riflessi dell’acqua. «I cipressi böckliniani – conclude Romanelli - sono ricorrenti anche nei tardi paesaggi, ma tutto è cambiato». Dall’irruenza delle avanguardie ai luoghi dell’anima.