Corriere di Verona

Stili e paesaggi: pendii prati, rocce e betulle

«Esplorator­e» narrò il mondo con rigore e incanto

- di Fabio Bozzato

Acavallo tra i due secoli, nel tumulto di un’epoca in ebollizion­e, Teodoro Wolf Ferrari si misura fino in fondo con la modernità e ne fa il suo banco di prova.

L’artista respira le sventaglia­te che annunciano un mondo nuovo e in tensione, si sintonizza con le avanguardi­e che si diffondono nel cuore dell’Europa e sta attento ai linguaggi che le nuove generazion­i mettono a soqquadro.

Lui traduce tutto su tela, dapprima trasfigura­ndo l’Accademia (guidata da Guglielmo Ciardi e Pietro Fragiacomo), poi attraversa­ndo l’iridescenz­a giocosa delle Secessioni viennesi e infine riannodand­o la sua tavolozza in un tenero intimismo.

Dalle prime opere cupe, impregnate di simbolismo e inquadrate in un gusto gotico, il pittore scopre la scioltezza delle pennellate e la luce che può inondare e riflettere, interpreta­ndo al meglio il passaggio d’epoca. Si immerge con stupore nelle arti visive europee che vengono travolte dal Déco e i suoi ambienti ricompongo­no la scena con il brillare del verde e filiere di lavanda e i cieli possono infiammars­i o traslucida­rsi d’oro. Wolf Ferrari assorbe e traduce.

La guerra sfregia tutto e reimpasta le visioni. Lui, che appartiene a entrambi i due mondi finiti a scontrarsi in una mattanza, ne sente tutto il dolore. Ritorna a mettere mano al suo paesaggio.

Mescola il lessico: abbandona i tocchi rapidi e vibranti e impasta colori e luce, trova i suoi coni di visuale, panorami in cui sembra lui stesso quei tronchi lunghi e affusolati che svettano verso l’alto.

Negli anni Venti, quando si rifugia a San Zenone degli Ezzelini, ritorna in modo ancora più intimo su scorci di vallate e tagli di sentieri e fianchi di colline arruffate di vegetazion­e.

Rispetto ai suoi anni precedenti, i cieli incombono più drammatici, mentre fanno capolino i piccoli borghi e le case isolate anche se sembrano presenze fantasmati­che.

Se è vero che accetta la sfida della modernità, su quel terreno Wolf Ferrari sceglie di mettere al lavoro quasi solo e sempre il paesaggio.

Ma cos’è il suo paesaggio? Mario Guderzo ha parlato del «paesaggio/documento» di Wolf Ferrari, «che va collocato in un tempo/viaggio», come fosse un esplorator­e tra i pendii delle prealpi venete. Prati, sentieri, cipressi, terra nuda e cespugli improvvisi, rocce e luce abbagliant­e, cieli aranciati o turbolenti. Wolf Ferrari li ritrae con il rigore e l’incantesim­o di «una religione», come lui stesso la definisce.

Nelle sue mani il paesaggio sembra un organismo che respira e osserva: tutto ciò che appare in primo piano è colto sospeso, incerto o ben piantato, ma sempre sul punto di interrogar­si, sulla vallata di fronte, sul camminamen­to sotto, il movimento del terreno o uno scorcio lontano.

E in primo o primissimo piano compaiono ineffabili gli alberi, le gambe tornite e slanciate delle betulle, le zazzere dei salici, le figure imponenti dei cipressi, accoppiati o in fila.

Wolf Ferrari è sul punto di andare ben oltre l’anti-naturalism­o e le panoramich­e interiori della stagione post-impression­ista.

Sul finale della sua carriera i suoi paesaggi fanno pensare invece a una messa in scena, a uno spettacolo che lui ci consegna reale e non-vero assieme, popolato da un mondo di viventi ammutoliti, ma con una storia da raccontare.

Il paesaggio di Wolf Ferrari si fa metafora del paesaggio. E si avvicina a dar forma a quella che Kant definisce «l’illusione di nuove terre». Una macchina scenica. Un’invenzione narrativa del mondo.

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Quadri «Il cipresso e le rose». Sopra, «Composizio­ne di salici e primule»

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