Stili e paesaggi: pendii prati, rocce e betulle
«Esploratore» narrò il mondo con rigore e incanto
Acavallo tra i due secoli, nel tumulto di un’epoca in ebollizione, Teodoro Wolf Ferrari si misura fino in fondo con la modernità e ne fa il suo banco di prova.
L’artista respira le sventagliate che annunciano un mondo nuovo e in tensione, si sintonizza con le avanguardie che si diffondono nel cuore dell’Europa e sta attento ai linguaggi che le nuove generazioni mettono a soqquadro.
Lui traduce tutto su tela, dapprima trasfigurando l’Accademia (guidata da Guglielmo Ciardi e Pietro Fragiacomo), poi attraversando l’iridescenza giocosa delle Secessioni viennesi e infine riannodando la sua tavolozza in un tenero intimismo.
Dalle prime opere cupe, impregnate di simbolismo e inquadrate in un gusto gotico, il pittore scopre la scioltezza delle pennellate e la luce che può inondare e riflettere, interpretando al meglio il passaggio d’epoca. Si immerge con stupore nelle arti visive europee che vengono travolte dal Déco e i suoi ambienti ricompongono la scena con il brillare del verde e filiere di lavanda e i cieli possono infiammarsi o traslucidarsi d’oro. Wolf Ferrari assorbe e traduce.
La guerra sfregia tutto e reimpasta le visioni. Lui, che appartiene a entrambi i due mondi finiti a scontrarsi in una mattanza, ne sente tutto il dolore. Ritorna a mettere mano al suo paesaggio.
Mescola il lessico: abbandona i tocchi rapidi e vibranti e impasta colori e luce, trova i suoi coni di visuale, panorami in cui sembra lui stesso quei tronchi lunghi e affusolati che svettano verso l’alto.
Negli anni Venti, quando si rifugia a San Zenone degli Ezzelini, ritorna in modo ancora più intimo su scorci di vallate e tagli di sentieri e fianchi di colline arruffate di vegetazione.
Rispetto ai suoi anni precedenti, i cieli incombono più drammatici, mentre fanno capolino i piccoli borghi e le case isolate anche se sembrano presenze fantasmatiche.
Se è vero che accetta la sfida della modernità, su quel terreno Wolf Ferrari sceglie di mettere al lavoro quasi solo e sempre il paesaggio.
Ma cos’è il suo paesaggio? Mario Guderzo ha parlato del «paesaggio/documento» di Wolf Ferrari, «che va collocato in un tempo/viaggio», come fosse un esploratore tra i pendii delle prealpi venete. Prati, sentieri, cipressi, terra nuda e cespugli improvvisi, rocce e luce abbagliante, cieli aranciati o turbolenti. Wolf Ferrari li ritrae con il rigore e l’incantesimo di «una religione», come lui stesso la definisce.
Nelle sue mani il paesaggio sembra un organismo che respira e osserva: tutto ciò che appare in primo piano è colto sospeso, incerto o ben piantato, ma sempre sul punto di interrogarsi, sulla vallata di fronte, sul camminamento sotto, il movimento del terreno o uno scorcio lontano.
E in primo o primissimo piano compaiono ineffabili gli alberi, le gambe tornite e slanciate delle betulle, le zazzere dei salici, le figure imponenti dei cipressi, accoppiati o in fila.
Wolf Ferrari è sul punto di andare ben oltre l’anti-naturalismo e le panoramiche interiori della stagione post-impressionista.
Sul finale della sua carriera i suoi paesaggi fanno pensare invece a una messa in scena, a uno spettacolo che lui ci consegna reale e non-vero assieme, popolato da un mondo di viventi ammutoliti, ma con una storia da raccontare.
Il paesaggio di Wolf Ferrari si fa metafora del paesaggio. E si avvicina a dar forma a quella che Kant definisce «l’illusione di nuove terre». Una macchina scenica. Un’invenzione narrativa del mondo.