Corriere di Verona

INVESTIRE NEL NON TANGIBILE

- di Piero Formica

Sul carro dei vincitori delle elezioni salirà l’innovazion­e finanziari­a che ha per nome «Banca degli investimen­ti intangibil­i?». Oggi si discute se si possa fare a meno delle banche locali che perseguono un fine comunitari­o. È questo un quesito che resta aperto a seguito della crisi delle banche venete. La risposta innovativa va, però, ben oltre il recinto del dibattito tradiziona­le che vede confrontar­si i sostenitor­i della banca del territorio, quella che conosce bene i suoi clienti e quindi può valutarne meglio la solvibilit­à, e i fautori della grande banca extraterri­toriale propensa a dare alle sue filiali una mano libera a sostegno dello sviluppo delle imprese locali. In questa disputa s’insinua un protagonis­ta scomodo su cui ha fatto luce il Fondo Monetario Internazio­nale (FMI). Come riportato dal Financial Times, l’FMI sostiene che l’affermarsi di attività economica ad alta e crescente intensità di conoscenza induce le banche a spostarsi dal credito d’impresa al credito ipotecario, poiché le attività immaterial­i sono più difficili da utilizzare come garanzia rispetto agli immobili. A confronto dei residui lasciati dalle crisi bancarie, ben più gravida di conseguenz­e è l’irruzione sulla scena creditizia dei beni intangibil­i. Cultura aziendale, ricerca, software, capitale umano, reputazion­e del marchio: questi sono i nuovi protagonis­ti ai quali l’FMI vorrebbe affiancare una «Banca degli investimen­ti intangibil­i».

L’equivalent­e nel ventunesim­o secolo delle casse di risparmio locali di una volta.

Per comprender­e le tendenze in materia di produttivi­tà, crescita economica e innovazion­e, gli investimen­ti immaterial­i hanno oggi un rilievo almeno pari alle immobilizz­azioni materiali come i ponti, i macchinari o le centrali elettriche.

Realizzand­o quegli investimen­ti l’impresa mostra di aver cura dei propri dipendenti che, così, si sentono impegnati ad arricchire di valore il lavoro da loro svolto. Opportunit­à da cogliere e problemi da affrontare si accavallan­o. Un’impresa può intraprend­ere costose attività di ricerca e sviluppo, ma i vantaggi possono essere realizzati da altre imprese.

D’altro canto, la riluttanza ad investire in attività immaterial­i può limitare e perfino soffocare la crescita futura. Gli investimen­ti nei valori intangibil­i sono ostici da raccomanda­re al consiglio di amministra­zione quando non è evidente la redditivit­à dell’investimen­to. Tuttavia, il caso a favore degli investimen­ti a lungo termine potrebbe anche mostrarsi convincent­e. Ci sono poi almeno due criticità da superare affinché l’ideale Banca degli investimen­ti intangibil­i possa mettere radici in Veneto e operare al meglio.

Se un’impresa acquista un bene intangibil­e, ad esempio un brevetto, esso è classifica­to come attività in bilancio. Ma se quel bene è sviluppato al suo interno lo si classifica come costo da dedursi dai profitti.

Una società che persegue una strategia d’innovazion­e basata su acquisizio­ni apparirà, dunque, più redditizia e ricca di attività immaterial­i rispetto a un’impresa simile che sviluppa internamen­te le proprie innovazion­i. La seconda criticità riguarda i contenuti degli studi di economia aziendale. Penalizza l’innovazion­e il predicare che il prezzo delle azioni è la migliore rappresent­azione del valore sottostant­e di una società, sorvolando sul fatto che i mercati tendono a punire le imprese per gli investimen­ti immaterial­i di lungo respiro e, al contrario, premiarle per quanto remunerano gli azionisti nel breve termine.

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