Quel sistema economico, prima ancora che politico, che è stato sepolto dalle elezioni del 4 marzo
Domenica 4 marzo gli elettori hanno scelto un diverso (ma non tanto nuovo) modello economico, lasciandosi alle spalle quello affermatosi a partire dagli anni ’60. Scompare l’Italia dei distretti economici, quella laboriosa e politicamente moderata, cresciuta sotto l’ala democristiana o delle cooperative rosse (a seconda dei territori), oscillante tra centrodestra e centrosinistra, che accettava la globalizzazione e le regole del mercato e che aveva accelerato la privatizzazione di banche, imprese e infrastrutture. Operazioni, queste, non sempre positive, perché quando lo Stato devolve a organizzazioni internazionali il controllo dei mercati e si trova in difficoltà a controllare le questioni transnazionali, determina uno scollamento tra governanti e governati. Perché privatizzare Telecom e Alitalia ha determinato sconquassi finanziari e occupazionali, lasciando motivatamente pensare alla svendita dei gioielli di famiglia.
Gli elettori del 4 marzo chiedono di applicare la flat tax (che significa meno tasse per i più abbienti), di avere più protezione dallo Stato, di introdurre dazi contro i prodotti stranieri, anche se provengono dall’area europea, di allargare senza limiti la cassa integrazione, di ricevere prestiti erogati a tasso zero, di veder salvate dallo Stato le banche private e le imprese di maggiori dimensioni. I vincoli europei sono considerati catene da spezzare, tanto quanto avrebbe dovuto fare il proletario di memoria marxiana. Dunque, quello che è prevalso nelle urne è una richiesta che si riassume in meno mercato e più Stato, meno profitti e meno tasse, meno libertà e più protezione. Se così è, ci si trova di fronte a un nuovo modello e la spinta elettorale determina condizioni nuove di governo del Paese.
Per questo credo che il presidente di Confindustria, Michele Bauli, che con la consueta pacatezza ha affrontato una lettura dell’esito elettorale alla luce del piano nazionale di Confindustria, indicando i percorsi democratici per realizzare un Paese più moderno, meno diseguale, più affluente e laborioso, non abbia tenuto conto di questo cambiamento di scenario. Il richiamo costante alla democrazia, gli obiettivi e i metodi indicati dal presidente Bauli sarebbero completamente condivisibili, se fossero riferiti al sistema economico che abbiamo conosciuto negli ultimi 50-60 anni.
Ma se lo scenario fosse cambiato, occorrerà cambiare anche gli occhiali che permettono di leggere la realtà. Innanzitutto fare i conti con le riflessioni sul populismo, verificare gli spazi nuovi che un sistema democratico deve definire, verificare anche la compatibilità dei piani economici e industriali con la nuova realtà.
Condivido con il presidente Bauli la lettura per la quale il nostro Paese è forte e capace di cambiare. Credo però che l’Italia non sia questa volta un vero laboratorio politico con caratteristiche proprie. Penso che sia allineata a tanti altri Paesi europei, dove le forze politiche di centro e centrosinistra (espressione, a mio avviso, del sistema economico che reputo tramontato) hanno ridotto sin quasi all’estinzione la loro presenza, per aver voluto parlare alle grandi imprese e ai colossi multinazionali, dimenticando quel tessuto di piccole medieaziende che costituiscono l’ossatura della nostra economia ma, anche di quella tedesca e francese. La miopia sta anche nell’aver criticato le forme nuove di rappresentanza politica, ritenendo che fosse sufficiente inquadrarle in un populismo di tipo nuovo, che rappresenterebbe l’ideologia di piccoli borghesi o di ceti confusi, spaventati dalla tecno-economia, dai sempre presenti «poteri forti» della finanza e dell’industria.
Questo tipo di riflessione, comune agli sconfitti che pretendono di essere i custodi della razionalità, minaccia e contesta lo stesso sistema democratico. I critici dimenticano che non ci si trova di fronte al populismo russo dell’800 di Turgenev, né a quello argentino di Peron. I critici dimenticano che la democrazia liberale nasce come compromesso tra la necessità di rispettare la volontà della maggioranza e quella, molto più difficile, di proteggere i diritti delle minoranze, garantendo la libertà di tutti i cittadini attraverso i meccanismi di pesi e contrappesi. Quello che si chiama populismo è una reazione che trova le origini nelle tensioni dei cittadini e nella mancata risposta delle classi politiche alle loro richieste e che per tale si legittima e trova una sfera espressiva nel voto. Di fatto, dunque, si contesta questa forma di democrazia non comprendendo le ragioni della maggioranza ed allontanandosi in modo significativo dall’ideale vicinanza con il popolo elettore.
Il problema dunque deve essere riportato alla domanda di fondo: ci troviamo di fronte a un conflitto tra élite, populismo e democrazia, o alla necessità di riconoscere la legittimità di opinioni e aspirazioni diverse dal pensiero dominante? Il sistema di centrodestra e di centrosinistra, pur con differenze importanti, ha rappresentato il pensiero dominante, in tema di libertà del mercato e della concorrenza, senza protezione dei più deboli; incapacità di cavalcare una globalizzazione che favorisce paesi più forti, incapace di contrastare un sistema che allarga le diseguaglianze, impoverisce la piccola borghesia, crea nuove povertà. È con questo scenario che occorre fare i conti e non sono più sicuro che il sistema politico che rappresenterà queste esigenze (tra pochi mesi o tra pochi anni) sia in grado di fare proprio il progetto economico illustrato da Michele Bauli e che si propone finalità completamente condivisibili.
Il problema mi sembra l’individuazione dei nuovi i mezzi con cui si possono raggiungere quei fini di laboriosità, eguaglianza, benessere. Perché questi fini non possono essere diversi neppure per chi ha saputo comprendere la spinta verso un sistema economico (e politico) diverso.