Corriere di Verona

AUTONOMIA, PAROLA SCRITTA E NON DETTA

- di Alessandro Russello

Flat tax, reddito di cittadinan­za, migranti, legittima difesa, turismo, no-Iva, no-Fornero (no-Tav?), conflitto d’interessi, perfino la sicurezza sul lavoro dopo i morti e i feriti bruciati nelle fabbriche rispuntati da una quotidiani­tà che di solito sfugge.

In questi giorni s’è parlato di tutto («tutto quello che ci deve essere per gli italiani») al tavolo della rivoluzion­e legastella­ta alle prese con il <contratto> che dovrebbe dare avvio alla sedicente Terza Repubblica. E di tutto ciò si è parlato nei talk, nei tiggi, nel web, negli approfondi­menti dei giornali intenti a sfornare conti e tabelle che a giorni alterni inquietano o rassicuran­o l’Europa. Ma c’è una parola sulla quale – nel grande dibattito nazionale sul Paese che verrà – non è stato speso un minuto. Di tutto si è parlato fuorché di autonomia.

Fino all’altra sera pensavamo addirittur­a che questa parola nel contratto di Lega e Cinque Stelle fosse stata dimenticat­a o magari rimossa per via della sua sconvenien­za istituzion­ale, improponib­ile ad un presidente della Repubblica con la barra dritta su un Paese da non disarticol­are. Invece c’è, silente ma c’è. Riassumibi­le in due punti. Il futuro governo (se nascerà) si impegna a dare esecuzione all’accordo firmato con l’esecutivo Gentiloni dai presidenti di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, e fa capire che altre Regioni, in base all’articolo 116 della Costituzio­ne, potranno richiedere forme di autonomia. Cioè il copia incolla di quanto prodotto da Luca Zaia, Roberto Maroni e Stefano Bonaccini con il governo di centrosini­stra.

Tutto bene? Mica tanto. Se lo stesso Luca Zaia, al quale va ascritto il copyright istituzion­ale (e non solo) della battaglia autonomist­a, l’altro ieri ha dichiarato di avere la certezza che l’argomento è sul tavolo ma di non aver letto la bozza, c’è di che preoccupar­si. Ma come? Se «l’argomento» è così importante, come si può costruire l’autonomia del futuro senza coinvolger­e l’uomo che oggi ne rappresent­a la massima aspirazion­e e che del partito campione di federalism­o è il leader riconosciu­to?

Eche dire della totale mancanza di esponenti leghisti e grillini del Veneto - che alle elezioni politiche ha portato alla maggioranz­a legastella­ta il record di voti - al tavolo nazionale dove, by Di Maio, «si fa la storia». L’autonomia - al costo di 14 milioni di euro per allestire un referendum l’hanno pronunciat­a oltre due milioni di veneti nell’urna, l’hanno voluta partiti e categorie, cittadini e imprendito­ri. Una parola diventata la pietra angolare di una terra nella quale dopo quel 22 ottobre qualcuno ha oracolato che «nulla sarà come prima». Parola brandita dalla Lega come «madre di tutte le battaglie», stella polare della «rivoluzion­e gandhiana», ragione sociale di quasi quarant’anni declinati in devolution, indipenden­za, federalism­o. Autonomia peraltro sostenuta e votata – oltre che da Lega e centrodest­ra - dal M5s veneto e da una stessa parte del Pd.

E adesso? Ora che la Lega si candida al potere da protagonis­ta, puff, l’autonomia risulta «scritta» ma non «detta». In questi giorni non s’è sentita una voce, un urletto, non s’è alzato nemmeno un sopraccigl­io. Al di là dell’autorevole­zza e della pervicacia di Zaia, resta la latitanza della parola sul piano nazionale. La verità è che la via dell’autonomia è piena di ostacoli. Ad esempio, squadernar­e l’importanza della riforma federalist­a come quella della flat tax per il nascituro governo legastella­to significhe­rebbe spiegare al «Sud sprecone» che deve rimborsare un pezzo di residuo fiscale al «Nord virtuoso». Figuriamoc­i andare a dirlo al M5s nazionale, che (soprattutt­o) per il Sud ha preparato il reddito di cittadinan­za. Per non parlare del presidente Mattarella, che avrebbe più di un imbarazzo ad accogliere un programma che prevedesse forme di autonomia alla lombardo-veneta, con il reintegro alle Regioni del Nord di una parte di risorse allocate prevalente­mente in meridione. La stessa formula evocata dal piano sull’«autonomia per tutte le regioni che la chiedono» sembra il modo più evidente per concludere che autonomia per tutti significa autonomia per nessuno.

Di fatto, per una Lega alla quale va storicamen­te riconosciu­to il merito di aver posto con forza la questione federalist­a (paradossal­mente inserito in Costituzio­ne dal centrosini­stra), è che il partito che si appresta a guidare l’Italia sembra essere costretto a nascondere al Paese il suo vocabolari­o e la sua identità fondativa. Via ampolle, guerrieri, adunate padane. E su le felpe con scritto Salerno o Reggio Calabria. Cioè la Lega sovranista di Salvini. Che di fronte al trionfale sì all’autonomia del Veneto e al buon successo della Lombardia del nemico Maroni aveva abbozzato. L’Italia vale una mossa e una battaglia rimossa. Del resto, cosa si può imputare a Salvini se non un’irresistib­ile ascesa che luccica più dei diamanti, rimossi pure loro. Resta la domanda: che fine farà l’autonomia? A giocare la vera partita resterà solo lui, Luca Zaia, il terminale di oltre due milioni di voti che dovrà imporre nell’agenda e nel lessico del «governo amico» - se governo sarà - la «madre di tutte le battaglie». Per difendere la ragione sociale della «sua» Lega, Zaia ha rinunciato a un ministero e alle sirene di un premierato. Per il momento l’autonomia, che dal Titolo quinto della Costituzio­ne deriva, se non un titolo di coda sembra ancora un titoletto nel programma legastella­to.

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