Quella difesa del buon nome che stritola i ragazzi delle seconde generazioni «Urgono mediatori culturali»
«Abbiamo sentito tanti discorsi sulla sicurezza, ma poi si dimenticano gli immigrati di seconda generazione. La politica si dice preoccupata per il terrorismo, ma poi taglia sui mediatori culturali. E i giovani rischiano di radicalizzarsi». È un mestiere difficile, spesso frustrante. Avvicinare culture lontane, rischiare di diventare bersagli di aperte ostilità. È il ruolo di chi va a confrontarsi con le comunità straniere. Di questi figure, assicura la sociologa Paola Di Nicola, ordinaria all’Università di Verona, c’è disperato bisogno. Perché, anche se i casi eclatanti come quello di Farah sono per fortuna rari, i conflitti tra le famiglie «tradizionaliste» e i figli che vivono assieme ai loro coetanei con le abitudini tipiche di un paese occidentale ci sono quasi sempre. «Non è solo una questione religiosa - spiega Di Nicola - ma questo tipo di problematiche si riscontrano quasi sempre nelle culture fondate sul controllo della donna.
Accadeva, seppur in modo diverso, anche tra gli emigrati italiani che si trasferivano in Germania negli scorsi decenni». Quello che per una famiglia proveniente da un altro Paese può sembrare una questione di «tutela del buon nome di fronte alla comunità», in Italia però deve conciliarsi con i diritti individuali. «È naturale che prevalgano sempre questi ultimi - prosegue Di Nicola - per questo è necessario che ci sia sempre chi parla con mamma e papà». Ma quali sono le dinamiche che portano al conflitto? «Hanno a che fare molto con il tipo di vita che di chi è immigrato nel nostro Paese: gli uomini passano gran parte del tempo sul luogo di lavoro, spesso con i loro connazionali e rafforzano il senso d’appartenenza all’identità. Le donne hanno molte occasioni sociali, anche solo per il fatto di fare la spesa. Aumenta, pertanto, in certe famiglie, il disagio degli uomini abituati ad avere un più ampio controllo. Ciò è vero soprattutto sulle ragazze della nuova generazione, per le quali si aprono in Italia possibilità di una vita autonoma che altrimenti sarebbe stata impensabile». Non di rado sono gli insegnanti a trovarsi di fronte a dei veri e propri dilemmi. La stessa Farah aveva destato l’attenzione della scuola, proprio per il suo rapporto con la famiglia, già negli anni scolastici passati. Che fare? «Il consiglio è parlare, sempre - risponde De Nicola - magari avvicinando le madri, che sono più sensibili. Ma bisogna aiutare a far uscire i ragazzi da una pericolosa campana di vetro». Da anni i sociologi studiano il fenomeno ed è emerso che trascurare la seconda generazione può portare ad aumentare il rischio radicalizzazione. «Dalle ricerche emerge che sono gli uomini i più propensi a ritornare nel Paese d’origine dopo essere emigrati. Per le donne si tratta di un compromesso poco accettabile. E proprio i ragazzi, se emarginati, rischiano di avvicinarsi a realtà radicali. In Francia succede spesso quando non trovano lavoro».