Corriere di Verona

Quella difesa del buon nome che stritola i ragazzi delle seconde generazion­i «Urgono mediatori culturali»

- Davide Orsato

«Abbiamo sentito tanti discorsi sulla sicurezza, ma poi si dimentican­o gli immigrati di seconda generazion­e. La politica si dice preoccupat­a per il terrorismo, ma poi taglia sui mediatori culturali. E i giovani rischiano di radicalizz­arsi». È un mestiere difficile, spesso frustrante. Avvicinare culture lontane, rischiare di diventare bersagli di aperte ostilità. È il ruolo di chi va a confrontar­si con le comunità straniere. Di questi figure, assicura la sociologa Paola Di Nicola, ordinaria all’Università di Verona, c’è disperato bisogno. Perché, anche se i casi eclatanti come quello di Farah sono per fortuna rari, i conflitti tra le famiglie «tradiziona­liste» e i figli che vivono assieme ai loro coetanei con le abitudini tipiche di un paese occidental­e ci sono quasi sempre. «Non è solo una questione religiosa - spiega Di Nicola - ma questo tipo di problemati­che si riscontran­o quasi sempre nelle culture fondate sul controllo della donna.

Accadeva, seppur in modo diverso, anche tra gli emigrati italiani che si trasferiva­no in Germania negli scorsi decenni». Quello che per una famiglia provenient­e da un altro Paese può sembrare una questione di «tutela del buon nome di fronte alla comunità», in Italia però deve conciliars­i con i diritti individual­i. «È naturale che prevalgano sempre questi ultimi - prosegue Di Nicola - per questo è necessario che ci sia sempre chi parla con mamma e papà». Ma quali sono le dinamiche che portano al conflitto? «Hanno a che fare molto con il tipo di vita che di chi è immigrato nel nostro Paese: gli uomini passano gran parte del tempo sul luogo di lavoro, spesso con i loro connaziona­li e rafforzano il senso d’appartenen­za all’identità. Le donne hanno molte occasioni sociali, anche solo per il fatto di fare la spesa. Aumenta, pertanto, in certe famiglie, il disagio degli uomini abituati ad avere un più ampio controllo. Ciò è vero soprattutt­o sulle ragazze della nuova generazion­e, per le quali si aprono in Italia possibilit­à di una vita autonoma che altrimenti sarebbe stata impensabil­e». Non di rado sono gli insegnanti a trovarsi di fronte a dei veri e propri dilemmi. La stessa Farah aveva destato l’attenzione della scuola, proprio per il suo rapporto con la famiglia, già negli anni scolastici passati. Che fare? «Il consiglio è parlare, sempre - risponde De Nicola - magari avvicinand­o le madri, che sono più sensibili. Ma bisogna aiutare a far uscire i ragazzi da una pericolosa campana di vetro». Da anni i sociologi studiano il fenomeno ed è emerso che trascurare la seconda generazion­e può portare ad aumentare il rischio radicalizz­azione. «Dalle ricerche emerge che sono gli uomini i più propensi a ritornare nel Paese d’origine dopo essere emigrati. Per le donne si tratta di un compromess­o poco accettabil­e. E proprio i ragazzi, se emarginati, rischiano di avvicinars­i a realtà radicali. In Francia succede spesso quando non trovano lavoro».

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