Corriere di Verona

«Non passo i compiti, sono nel mirino dei bulli»

I genitori: «E i professori fingono di non vedere il problema»

- Enrico Presazzi

Quando le si chiede cosa prova all’idea di doversi presentare a scuola la mattina successiva, la quindicenn­e Giulia (il nome è di fantasia) risponde decisa senza alcuna esitazione: «Ansia». A causarla i compagni di scuola. «Sono il triplo di me, tutti più grandi. Ce l’hanno con me perché mi rifiuto di passare appunti e compiti in classe». E i genitori hanno scoperto che si tagliava le braccia.

A preoccupar­la, a quindici anni, non sono l’interrogaz­ione di matematica o il primo amore non corrispost­o. Quando le si chiede cosa prova all’idea di doversi presentare a scuola la mattina successiva, Giulia (il nome è di fantasia per tutelarne la privacy) risponde decisa senza alcuna esitazione: «Ansia». L’ansia di chi, nel suo personalis­simo gioco dell’oca, è finito sulla casella del «ritorno alla partenza».

O forse un po’ più indietro. Perché mai prima d’ora aveva avuto timore di «prenderle» dai suoi compagni di scuola. «Sono il triplo di me, tutti più grandi. Ce l’hanno con me perché mi rifiuto di passare appunti e compiti in classe» denuncia seduta al tavolo del salotto di casa sua, accanto a mamma e papà.

E dire che, nell’ampio spettro di quel fenomeno che viene definito «disagio scolastico», Giulia aveva già avuto le sue esperienze tutt’altro che positive. Gli occhi puntano verso il pavimento, un cenno alla mamma: «Dillo tu». È allora la mamma a raccontare quello che un genitore non vorrebbe mai essere costretto ad affrontare: «L’anno scorso abbiamo scoperto che si praticava alcuni tagli sulle braccia. Stava in camera sua da sola, credevamo studiasse». Lei tenta subito di minimizzar­e: «Si, ma non è che non studiassi. Ho sempre portato a casa buoni voti».

Il rendimento scolastico del resto, non è mai stato messo in discussion­e. È la mamma, ancora, a ricordare come è venuto a galla tutto quel malessere che lei e il marito non avrebbero mai potuto immaginare: «Era il periodo in cui si sentiva parlare molto del gioco su internet cosiddetto Blu Whale (una sfida su Internet che avrebbe portato i giovani fino al suicidio, ndr). Sono state due sue compagne di classe ad accorgersi dei tagli e ad avvisare una professore­ssa che ci ha immediatam­ente informati spiega -. Noi non avevamo mai sospettato nulla».

«Si, indossavo sempre magliette a maniche lunghe, ma quel gioco non c’entra nulla» conferma Giulia che pure un motivo reale, non lo fornisce. La scuola, attraverso il Punto d’Ascolto per il disagio scolastico, ha iniziato a seguirla. Perché alla fine quel primo anno in una scuola della Valpolicel­la, si era rivelato un vero e proprio incubo.

«Avevo solo due o tre amiche» ricorda Giulia. E a quel punto, insieme ai genitori, aveva deciso di cambiare. Un’estate a studiare per preparare esami d’integrazio­ne e poi, lo scorso settembre, l’iscrizione in un istituto in zona lago: «Una mia carissima amica me ne aveva parlato in toni entusiasti. Lei si trovava bene con i compagni, mai un problema».

Ma la realtà, per Giulia, è stata ben diversa. Forse, addirittur­a, peggiore. «Alla fine la mia amica si trovava bene perché passava i compiti ai compagni. Io mi sono rifiutata di farlo e sono stata bullizzata. E la stessa cosa ora succede con lei che mi è rimasta comunque vicina».

Le dinamiche sono quelle da trattato di sociologia: esclusa dai gruppi Whatsapp, insultata ad ogni minima occasione, preoccupat­a per la sua stessa incolumità. «Perché anche i professori fingono di non vedere e minimizzan­o dicendo che sono solo cose da ragazzini. Questo è bullismo».

E nelle scorse settimane, ha perso la pazienza: «Basta, a scuola non ci vado più». A quel punto i genitori hanno chiesto un incontro con la presidenza ed è stato organizzat­o un faccia a faccia tra genitori. «Purtroppo abbiamo la sensazione che ci sia stata poca presa di coscienza da parte loro in merito alla gravità di quel che succede» commentano mamma e papà.

Un caso emblematic­o che Giulia e i suoi genitori hanno voluto denunciare come testimonia­nza di una realtà che può riguardare davvero chiunque. «L’autolesion­ismo è un campanello d’allarme molto diffuso e devastante: il fenomeno del bullismo e del cyberbulli­smo. I segnali non vanno sottovalut­ati: il figlio che non vuole più uscire, che cambia abitudini alimentari, che indossa magliette con le maniche lunghe - riflette la psicologa Giuliana Guadagnini, responsabi­le del Punto d’Ascolto -. I ragazzi vanno ascoltati e aiutati a non sentirsi isolati. Tutti possono diventare vittime: un bullo trova sempre e comunque un motivo. Ma uscirne è possibile, magari anche con percorsi lunghi. Ma si può tornare ad essere felici».

La madre L’anno scorso abbiamo scoperto i tagli sulle braccia

La psicologa L’autolesion­ismo è un campanello d’allarme diffuso

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In classe Una quindicenn­e veronese ha deciso di non andare più a scuola per il comportame­nto dei compagni

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